Il finanziamento della guerra italiana '15-'18

di Claudio Loreto

Nel groviglio di attriti che partorì il primo conflitto "mondiale" della Storia, un ruolo rilevante ebbe la contesa dei mercati fra le nazioni più industrializzate, bisognose ciascuna di nuovi sbocchi per le proprie merci e i propri capitali in costante aumento. Così pure di natura principalmente economica furono poi le ragioni della vittoria degli Alleati.

Allo scoppio del conflitto la superiorità militare degli Imperi Centrali era indiscutibile, ma all'"Intesa" riuscì di contenere l'ondata offensiva subito scatenata dal nemico, frantumando così sul nascere il suo sogno di una vittoria "lampo". E la guerra di trincea che ne seguì giocò, con i suoi tempi lunghi, a favore degli Alleati: circondate per mare e per terra, Germania e Austria-Ungheria videro via via esaurirsi i viveri e spegnersi le loro produzioni per mancanza di materie prime, mentre gli avversari, grazie a quei serbatoi inesauribili che erano gli imperi coloniali britannico e francese e gli Stati Uniti d'America, poterono al contrario gettare sui campi di battaglia risorse sempre maggiori.

Così nell'autunno del 1918 il collasso economico obbligò alla resa gli Imperi Centrali, a dispetto di eserciti, sulla carta, ancora poderosi. Ma l'Italia, a quell'epoca fra i paesi europei meno sviluppati economicamente, come affrontò un conflitto tanto tremendo, divoratore di risorse ben al di sopra delle sue possibilità?

L'Italia dalla neutralità all'intervento

Bonaldo Stringher, Direttore Generale della Banca d'Italia durante la Prima Guerra Mondiale, immagine in pubblico dominio, fonte Wikipedia, utente Caulfield

Bonaldo Stringher, Direttore Generale della Banca d'Italia durante la Prima Guerra Mondiale.

Il 3 agosto 1914, l'Italia dichiarò ufficialmente la propria neutralità; quello stesso giorno le notizie del moltiplicarsi delle mobilitazioni generali e delle dichiarazioni di guerra tra le potenze europee fecero esplodere il panico nel Paese, generando una "corsa agli sportelli" bancari di tali dimensioni da obbligare il governo a varare in tutta fretta un provvedimento di "moratoria": prelevamenti generalizzati avrebbero potuto svuotare le banche, peraltro già in difficoltà a causa della recessione manifestatasi nel primo semestre dell'anno; ed il collasso del sistema bancario, unito all'eccessivo aumento della circolazione monetaria che si sarebbe venuto a determinare, avrebbe con tutta probabilità sprofondato il Paese in una crisi  finanziaria - e di riflesso politica - assai grave.

Pubblicato il 4 agosto, il decreto autorizzò le aziende di credito (eccezion fatta per quelle di emissione: Banca d'Italia, Banco di Napoli e Banco di Sicilia) a limitare i rimborsi al 5% dell'ammontare di ciascun deposito; nel frattempo, a tutela della conservazione delle riserve auree del Paese, la Banca d'Italia aveva sospeso la conversione in oro della lira.

Dapprima accolto con favore da banchieri e imprenditori, a fine agosto il decreto iniziò a essere bersagliato da critiche; si sostenne infatti che, superata ormai la fase critica, la moratoria si stava tramutando in un ostacolo al libero mercato e si premette pertanto per un suo ritiro. Ma Bonaldo Stringher, Direttore Generale della Banca d'Italia ("spalla" tecnica del Ministero del Tesoro), era di avviso opposto: la situazione non aveva precedenti e a quel momento non era ancora possibile azzardare previsioni; la revoca tout court del provvedimento sarebbe stata quindi "...un pericolosissimo salto nel buio". Anche perché Stringher non escludeva un improvviso ingresso in guerra dell'Italia. Inoltre il responsabile di Via Nazionale era consapevole che il ristagno produttivo aveva ben altre cause. Così, con aggiustamenti legislativi successivi, la moratoria fu tenuta in vigore fino al 31 marzo 1915; a quella data la calma si era ormai ristabilita da tempo.

Nel frattempo partiti politici, stampa e opinione pubblica si erano spaccati nei due appassionati e contrapposti campi del "neutralismo" (maggioritario) e dell' "interventismo", vuoi pur al fianco o contro gli Imperi Centrali. Anche se con motivazioni profondamente diverse, nel primo si schierarono cattolici, socialisti e liberali di Giovanni Giolitti. Quest'ultimo in particolare, avendo avuto la responsabilità del governo fino al marzo 1914, era perfettamente al corrente dell'impreparazione delle nostre forze armate e ammoniva che i conti dello Stato, già lesi dall'avventura libica, avrebbero rischiato di "saltare" nel tentativo di adeguare e sostenere i nostri reparti in una guerra di tipo moderno; il nostro modesto apparato industriale e l'atavica penuria di materie prime, poi, ci avrebbero fatto dipendere dall'estero. Quale conseguenza, il lungimirante statista piemontese intravedeva all'orizzonte allarmanti tensioni sociali, tali da mettere a repentaglio la solidità stessa del regime liberale.

Del resto, molti settori dell'industria (in particolar modo di quella leggera) e del capitale finanziario erano persuasi che il mantenimento della neutralità li avrebbe posti nella ideale condizione di fornitori di ambedue le coalizioni in lotta, garantendo dunque immediati profitti. Un calcolo in quel momento fantasioso: al di là dell'imbarazzo diplomatico che ne sarebbe probabilmente derivato al nostro governo, questi neutralisti "interessati" non tenevano in conto che tutti i belligeranti erano persuasi che nessuna economia avrebbe retto a lungo il servizio militare obbligatorio di massa, che il conflitto in atto di lì a poco avrebbe dunque avuto termine e che non era pertanto necessario effettuare acquisti da Paesi stranieri.

Viceversa, taluni comparti dell'industria pesante - Ansaldo di Genova in testa - ritenevano che profitti concreti sarebbero potuti derivare solo dalle commesse dello Stato allorché questo si fosse gettato nella mischia, e si diedero pertanto ad appoggiare l'eterogeneo insieme di forze, fra loro anche ostili, che reclamavano l'immediato intervento: nazionalisti, liberali di destra antigiolittiani, irredentisti, c.d."interventisti democratici", sindacalisti rivoluzionari.

L'industria bellica, comunque, usufruì subito di una "anticipazione". Nonostante la dichiarazione di neutralità, infatti, il governo ritenne opportuno procedere  in tempi brevi al rafforzamento di esercito e marina, e ciò mentre un costoso contingente doveva essere mantenuto in Libia: tra agosto e ottobre le spese per le forze armate ebbero un incremento di 181 milioni  (nell'intero  esercizio  luglio 1913 - giugno 1914  il bilancio della Difesa era ammontato a 833 milioni). In novembre, poi, venne deliberata un'ulteriore spesa di 400 milioni.

Ma come reperire tali fondi? Accantonata l'ipotesi di un pesante inasprimento fiscale (in novembre si ebbero aumenti di imposte per soli 35 milioni), lo Stato italiano intraprese, per poi seguirla anche nella fase dell'intervento, la strada del debito pubblico e delle anticipazioni da parte degli istituti di emissione. Nel gennaio del 1915 si aprì così la sottoscrizione pubblica del primo dei sei Prestiti Nazionali ai quali si ricorrerà per far fronte alle esigenze della guerra; per la loro emissione e il loro collocamento il Tesoro si avvalse della Banca d'Italia, il più importante dei tre istituti all'epoca autorizzati a emettere banconote, la quale proprio durante il conflitto, per i compiti straordinari di indirizzo dell'economia cui sarà chiamata, vedrà iniziare la sua trasformazione da istituto di natura privata con funzioni pubbliche a banca centrale pubblica del nostro Paese.

Intanto Corona e Governo, all'insaputa del Parlamento e contro la maggioranza dell'opinione pubblica, avevano deciso la guerra; a favore dell'intervento, fra l'altro, v'era la tesi che con la neutralità l'Italia si sarebbe condannata a una posizione di potenza di secondo rango, succube dei vincitori. Il conflitto, del resto, anche secondo l'opinione dei nostri vertici istituzionali sarebbe stato di breve durata e, dunque, finanziariamente sopportabile persino per un Paese debole come l'Italia.

Gli esiti del "mercato" dei compensi territoriali intrattenuto con entrambe le coalizioni belligeranti, unitamente a una più "naturale" ostilità nei confronti dell'Austria, indurranno il governo di Roma a schierarsi sotto le insegne dell'Intesa. Il relativo "contratto" di alleanza, stipulato a Londra il 26 aprile 1915 (e tenuto nascosto al Parlamento fino al 1917!) non prevedeva alcuna assegnazione all'Italia di materie prime e materiale bellico, bensì solo l'impegno, estremamente generico, da parte dell'Inghilterra di concedere al nuovo alleato "...un prestito di non meno di 50 milioni di sterline da concludersi sul mercato di Londra". Cosicché agli inizi di maggio, allorché l'ambasciatore italiano a Londra, il marchese Guglielmo Imperiali di Francavilla, assistito dal responsabile del Servizio Rapporti con l'Estero della Banca d'Italia, Arrigo Rossi, negoziò le condizioni del prestito, i nodi vennero subito al pettine: gli inglesi pretendevano infatti, a copertura, l'invio in Inghilterra di oro italiano; il governo di Roma, sicuro della brevità del conflitto, dal canto suo reputava fuori luogo il ricorso alle riserve quale mezzo di pagamento internazionale.

Il negoziato si interruppe. Un nuovo incontro tra i ministri del Tesoro dei due Paesi, presenti i responsabili di Banca d'Inghilterra e Banca d'Italia, ebbe luogo a Nizza il 4 e 5 giugno successivi, quando Roma, forzata la mano al Parlamento con virulente manifestazioni di piazza orchestrate dal governo, era già entrata nel conflitto: il compromesso infine raggiunto sulla Costa Azzurra previde un credito complessivo di 60 milioni di sterline, rateato settimanalmente fino al 31 dicembre 1915, contro una rimessa d'oro pari solo a 1/6 del credito; i restanti 5/6 dovevano essere coperti con Buoni del Tesoro Italiano. L'oro sarebbe stato restituito all'Italia dopo il rimborso delle suddette anticipazioni.

In novembre, un accordo supplementare concedeva all'Italia un ulteriore prestito - rateato mensilmente  fino al dicembre 1916 - di 122 milioni di sterline. Roma accettava di trasferire in oro la decima parte di tale ulteriore credito, nonché di spendere una consistente quota dello stesso (57 milioni) sul mercato britannico; una obbligazione, quest'ultima, che limitava  pesantemente gli approvvigionamenti alle nostre truppe,  dal momento che l'industria britannica in quella fase poteva soddisfare solo in parte le necessità dei Paesi alleati.

La dichiarazione di guerra all'Austria del 23 maggio non aveva generato particolare panico fra il pubblico, ormai "preparato" all'evento dalle agitazioni nazionalistiche e fiducioso in una guerra "limitata"; non fu pertanto necessario decretare una nuova moratoria. L'inizio delle ostilità, come calcolato dai capitani d'industria "interventisti", produsse invece un rilancio delle attività più direttamente legate al conflitto.

Benito Mussolini in divisa da bersagliere, immagine in pubblico dominio, fonte Wikipedia, utente Jose Antonio

Benito Mussolini in divisa da bersagliere. Il futuro Duce del Fascismo, grazie al suo ruolo direttivo del giornale Popolo d'Italia, nel 1914-15 fu esponente di spicco del movimento degli Interventisti che trascinò l'impreparata Italia nel disastro bellico ed economico della Prima Guerra Mondiale.

Le procedure degli appalti per le forniture alle forze armate vennero snellite e i relativi pagamenti da parte dello Stato divennero piuttosto rapidi; non di rado l'amministrazione pubblica accordava addirittura anticipi. Data l'urgenza, lo Stato non badava poi molto ai prezzi e alla qualità delle merci commissionate: i profitti per imprenditori e per speculatori d'ogni genere furono dunque enormi e immediati. E tali "pescecani", come vennero definiti con disprezzo dall'opinione pubblica, si sfregarono ancora di più le mani allorché nell'estate del '16 apparve chiaro, tragicamente, che la guerra sarebbe stata tutt'altro che breve: la spesa per forniture militari, già raddoppiata in termini reali tra il 1915 e il 1916, aumentò ancora di 1/3 circa nel 1917.

Beneficiari di questo eccezionale fiume di denaro furono anche imprese straniere. La nostra produzione agricola, ad esempio, negli anni di guerra non registrò sostanziali incrementi, e razionamenti e requisizioni, se da un lato contribuirono a ridurre larga parte della popolazione civile ai limiti della sopravvivenza (nell'agosto del '17 a Torino esploderà addirittura una sommossa popolare contro la mancanza di generi alimentari, repressa nel sangue), dall'altro non coprirono assolutamente il fabbisogno alimentare degli uomini al fronte; gli acquisti all'estero divennero pertanto massicci: nel 1917 le importazioni nette di prodotti agricoli e industriali giunsero a essere pari a 1/4 della produzione interna.

Come accennato in precedenza, lungo l'intero periodo '14-'18 il denaro necessario all'acquisto di una siffatta ciclopica massa di equipaggiamenti venne rastrellato per ben 2/3 indebitandosi sia all'interno sia all'estero (il fisco e la stampa di banconote contribuirono in parti grosso modo uguali a coprire il resto). All'interno, lo Stato riuscì a spingere i privati cittadini a sottoscrivere i titoli del debito pubblico, oltreché offrendo un buon tasso di interesse, facendo fortemente appello ai sentimenti patriottici; come del resto avveniva all'estero, le imprese furono invece stimolate ad aderire ai prestiti da una serie di incentivi economici. Il debito "interno" così accumulato rappresentò circa il 72% del passivo totale.

Al debito contratto con i governi alleati era invece legato il problema della difesa del valore esterno della lira; la divisa italiana si deprezzò quasi costantemente, in primo luogo proprio a causa del continuo ampliarsi dello squilibrio tra importazioni ed esportazioni: essa si svalutò rispetto alla sterlina del 20% nel 1915, del 5% nel 1916 e del 22% nel 1917.

Nell'ottobre del '17 il tracollo delle nostre linee nei pressi di Caporetto - cui si fece finanziariamente fronte con immediate e sostanziose anticipazioni da parte degli istituti di emissione - partorì un nuovo governo; il nuovo ministro del Tesoro, Francesco Saverio Nitti, propugnava la necessità di centralizzare a scopi bellici ogni risorsa nazionale, nonché di  ridurre i margini di profitto dei fornitori; persuaso che la caduta della lira fosse in realtà da attribuire alle manovre speculative delle banche,  verso le quali non nutriva fiducia,  l'11 dicembre 1917 Nitti impose, "...per la durata della guerra e per i sei mesi dopo la conclusione della pace...", la costituzione dell'Istituto Nazionale per i Cambi con l'Estero (INCE), un vero e proprio monopolio di Stato per i cambi servito dagli istituti di emissione e dalle maggiori banche di credito ordinario, obbligate a prestare allo Stato, in cambio di una provvigione, personale e uffici.

L'INCE, alla cui istituzione la Banca d'Italia si era opposta giudicandola persino dannosa, non riuscì in effetti a frenare la caduta della nostra moneta: nel giugno 1918 il franco svizzero raggiunse quota 2,3 lire (il cambio prebellico era pari a 1); fu la messa a punto della cooperazione finanziaria con gli Stati Uniti a imprimere una inversione di tendenza: nella seconda metà del '18 si verificò un apprezzamento sulla sterlina di circa il 30% e la divisa svizzera ridiscese a 1,3 in novembre, il mese che vide la fine dell'immane carneficina (più di 8 milioni e mezzo di morti e di 21 milioni di feriti, nella quasi totalità di età compresa fra i 20 e i 40 anni: una perdita di risorse fisiche e intellettuali incalcolabile!).

La pesante eredità del conflitto

Il vecchio continente uscì dalla guerra in uno stato di rovina generalizzata e di forte dipendenza economica e finanziaria dalla nuova maggiore potenza mondiale, gli Stati Uniti d'America.

Il commercio intereuropeo era crollato e la nascita di nuovi Stati in conseguenza della dissoluzione degli imperi austro-ungarico e russo determinarono la comparsa in Europa di nuove barriere doganali, nuove monete e nuove produzioni nazionali di scala assai modesta, tutti fattori di gravissimo ostacolo alla ripresa degli scambi. Macchinari industriali e trasporti, impegnati per oltre 4 anni a funzionare senza soste e revisioni, erano ormai logori; la riconversione degli impianti a produzioni di pace comportò ristrutturazioni e restrizioni di manodopera che lasciarono senza lavoro milioni di uomini restituiti alla società dalle trincee; innumerevoli poi erano gli invalidi: nessuna precedente guerra aveva reso inservibili alla produzione e trasformato in un "peso" per la collettività una quantità così impressionante di individui.

La necessità di continuare a importare - soprattutto dalle Americhe - molto più di quanto non si riuscisse a pagare con le esportazioni produsse in ogni Paese europeo il rialzo continuo dei prezzi e dunque un'inflazione galoppante. Su questo piano gli Stati Uniti avrebbero potuto venire incontro agli ex alleati; ma, insieme al conflitto, Washington considerava terminata anche la solidarietà finanziaria. Peggio ancora, però, i trattati di pace furono dettati esclusivamente dalla volontà punitiva dei vincitori e non previdero alcun piano di rinascita economica generale dell'Europa, condannando così il vecchio continente a una prolungata crisi produttiva, sociale e politica che alla fine degenererà, coinvolgendo ancora il mondo intero, in una nuova e più immane catastrofe.

Dal canto suo, l'Italia aveva dovuto sostenere uno sforzo che, oggettivamente modesto se paragonato a quello compiuto dagli altri principali belligeranti, si era però rivelato alla fine gigantesco in rapporto alle proprie possibilità: è stato calcolato che il costo della guerra ammontò a ben 1/3 del prodotto interno lordo dell'intero periodo '15-'18. Così il nostro Paese, pur figurando tra le potenze vincitrici, si ritrovò nelle condizioni economiche, sociali, politiche e morali tipiche delle nazioni sconfitte.

Nel 1918 si registrò in Italia il più alto tasso di inflazione; posto uguale a 100 il livello dei prezzi all'ingrosso del 1913, gli indici relativi all'ultimo anno di guerra furono: 409 in Italia, 340 in Francia, 227 in Gran Bretagna, 217 in Germania, 194 negli USA. I prezzi salirono alle stelle: i capitali dei piccoli risparmiatori si polverizzarono, mentre i salari non riuscivano a tenere testa al caro-vita e all'aumentata pressione fiscale.

Il bilancio dello Stato aveva un deficit impressionante: 23.345 milioni di lire nell'esercizio '18-'19, contro i 214 del '13-'14.

L'indebitamento estero raggiungeva una cifra pari a 5 volte il valore delle nostre esportazioni del 1919. Ancora dopo l'armistizio, l'impellente bisogno di valuta per potere continuare a importare generi fondamentali aveva spinto Stringher, dopo il "no" politicamente miope degli Stati Uniti, a ribussare alla porta inglese; nonostante la crisi di disponibilità finanziaria in cui versava la stessa Londra, il capo della Banca d'Italia era riuscito a strappare un'ultima apertura di credito di 50 milioni di sterline, parte dei quali destinati però al pagamento degli interessi maturati sui prestiti precedenti.

Il nostro debole apparato produttivo sembrava non reagire. La guerra, poi, aveva accentuato la già alta concentrazione monopolistica della grande industria e favorito la sua compenetrazione con il capitale bancario: nella primavera del '18, ad esempio, forti della liquidità realizzata grazie alle commesse statali, i fratelli Perrone (Ansaldo) avevano dato la scalata alla Banca Commerciale, Agnelli (Fiat) e Gualino (Snia) al Credito Italiano (al cui capitale già partecipava l'Ilva), in una strategia di ampliamento e diversificazione delle loro attività. Ciò non solo poneva i potentati economici in condizione di esercitare una enorme influenza sugli apparati dello Stato, ma esponeva anche aree economiche diverse a rischi mortali in caso di dissesto di una capo-gruppo. Sarà il caso dell'Ansaldo, che aveva avuto uno sviluppo tumultuoso in relazione alla domanda bellica dello Stato; le sue difficoltà di riconversione causeranno il fallimento della Banca Italiana di Sconto, verso la quale la società genovese era fortemente indebitata, rovinando migliaia di piccoli e medi risparmiatori.

Disoccupazione e scioperi, occupazione delle fabbriche e "minaccia" della rivoluzione sociale, mito della "vittoria mutilata" e crisi dello Stato liberale: sulle "rovine" dell'Italia postbellica il fascismo avrebbe presto insediato il proprio potere autoritario.

Articolo pubblicato sul mensile "HISTORIA" (luglio 1994), riprodotto su gentile concessione dell'autore, conservato su questo sito web dopo la chiusura del Progetto di Documentazione Storica e Militare.

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