Gesta criminali
Salve a tutti, ed eccoci di nuovo presenti nella rubrica mensile di Letture Fantastiche.
Adolf Eichmann in divisa militare nazista.
Passato Halloween l'autunno volge velocemente verso il periodo natalizio, trascinandosi torpido in quell'atmosfera di luci e cieli brumosi.
Momento perfetto, ancora si sentono gli echi della festa preferita degli amanti dell'orrore, per affrontare argomenti un po' più impegnativi. Argomenti in cui la Storia si apre a riflessioni profonde e universali sulla natura dell'uomo: sull'origine di comportamenti esecrabili che, nella ricerca ostentata di una definizione, l'opinione pubblica bolla sin troppo spesso sotto la definizione di "male".
Etichetta, questa, che ci esime dall'obbligo di scovare possibili ragioni che siano all'origine di certi comportamenti.
Ci inoltriamo, in tal caso, in un campo non soltanto complesso, ma anche molto delicato: incendiario ed esplosivo rispetto alle corde della sensibilità comune.
Una possibile spiegazione
Non sono pochi gli studiosi che hanno tentato di dare una spiegazione alle gesta di individui come Ed Gein, Ted Bundy e Jeffrey Dahmer.
Le difficoltà riscontrate nella ricerca di una teoria valida fanno però riflettere su quanto sia complessa e sfuggente la natura umana; su come non esista una formula univoca che spieghi certi meccanismi. Probabilmente è più semplice comprendere il funzionamento dello spazio che non della psicologia umana.
Una forte carica emotiva
La difficoltà è inoltre data dalla spaventosa e siderale carica emotiva innescata dall'argomento.
Pensiamo a tutte le persone coinvolte direttamente o indirettamente in queste vicende: le vittime, i parenti, i familiari stessi dell'assassino.
Le domande a cui si tenta di rispondere sono le più comuni: com'erano questi criminali, da bambini? Che tipo di adolescenza hanno vissuto? In certi momenti c'erano già avvisaglie dei loro comportamenti futuri? La carriera criminale poteva essere evitata e prevista oppure la "molla della criminalità" sarebbe scattata a prescindere?
Certe riflessioni sono sicuramente molto difficili e farraginose. Richiedono non soltanto di avere una conoscenza approfondita della psicologia e della sociologia, ma anche di essere persone empatiche e curiose rispetto alla natura umana, persino nei suoi lati più oscuri e insidiosi. Dei pensatori formidabili, in grado di districarsi in un dedalo fatto degli argomenti più disparati.
Filosofi e criminali della storia
Cosa succede, tuttavia, quando le gesta eseguite da un criminale sono rese legali, addirittura istituzionalizzate, da uno Stato che approva e incoraggia l'omicidio di massa?
Cosa accade quando, oltre all'individuo in sé, va considerata tutta la complicata cornice sociale e normativa di uno dei periodi più bui della storia dell'uomo? Una macchina burocratica che organizzava l'omicidio come se fosse un semplice lavoro d'ufficio.
Un lavoro, questo, che soltanto un'ecomiabile filosofa come Hannah Arendt poteva fare.
Nel libro La banalità del male, in modo lucido e scrupoloso, l'autrice riporta la testimonianza di uno dei più importanti processi contro i crimini nazisti, pari soltanto a quello di Norimberga.
Il processo contro l'ex SS Obersturmbannführer Adolf Eichmann, tenuto a Gerusalemme fra l'11 aprile e il 15 dicembre 1961.
Il libro
La Arendt, inviata del New Yorker, fu chiamata a scrivere un resoconto della vicenda; ma questo fu talmente lucido, denso di riflessioni che andavano oltre la semplice vicenda giudiziaria, che non passò molto tempo prima che diventasse un libro.
Lo scritto della Arendt offre spunti e illuminanti disquisizioni non solo sulla natura di Eichmann, ma su tutte le controverse vicende legate al processo: la difesa dell'imputato, la macchina burocratica nazista e le mire espansionistiche del Terzo Reich.
Un documento denso e importante, degno dell'acume e di tutta la profondità di chi l'ha scritto.
Hannah Arendt.
La penna di Arendt raschia nel fondo della storia
Al di là dei fatti contingenti al processo: la questione del sequestro di Eichmann da parte del Mossad; il fatto che Israele non potesse costituirsi parte civile, episodio che la Arendt considera puramente formale, dal momento che lo stato di Israele era stato fondato proprio da coloro che erano fuggiti e sopravvissuti alle persecuzioni naziste. Al di là, pure, di tutte le sezioni burocratiche che definivano la macchina di morte delle SS - le Einsatzgruppen incaricate di fucilare gli ebrei, organismo che agiva parallelamente ai campi di sterminio - del fatto che, per espandere il proprio Lebensraum, Hitler volesse ripulire completamente i territori dell'Est per cederli ai tedeschi, e del modo variegato in cui furono condotte le deportazioni nei vari stati d'Europa -a questa parte la Arendt dedica molto spazio, spiegando come il territorio italiano costituisse una specie di zona franca, mentre la Romania, fanaticamente collaborazionista, perpetrava torture che erano quasi peggiori di quelle naziste - ciò che emerge in modo interessante nel libro della Arendt è la questione relativa all'iniziale politica filosionista del regime nazista, con la quale - almeno in principio - si voleva risolvere la questione ebraica.
La politica filosionista
Nessuno credette a Eichmann quando, da ex esperto di questioni ebraiche, addusse, per giustificarsi, che la politica di deportazione da lui applicata consisteva nel trasferire gli ebrei in un territorio sicuro: il Madagascar.
Tuttavia, la Arendt dimostra come la complicata macchina di deportazione mai sarebbe stata portata avanti senza la collaborazione degli ebrei medesimi.
L'iniziale linea filosionista - chiaramente capziosa - era volta a ottenere la collaborazione immediata degli ebrei.
In ogni territorio occupato fu istituito un Ufficio centrale ebraico: gli incaricati degli uffici stilarono le liste di deportazione e compilarono i documenti per la confisca dei beni dei loro compatrioti. Convinti, sul serio, che costituisse un sacrificio necessario perché, alla fine, fosse loro concessa una terra.
Le menzogne di Eichmann
Eichmann era del tutto consapevole di come questa politica fosse stata abbandonata a un certo punto e sostituita con quella ufficiale dello sterminio.
Tanto che, persino di fronte alle diserzioni dei suoi superiori negli ultimi anni della guerra, Eichmann preferì obbedire agli ordini di sterminio ufficiali del Führer.
Il ritratto di Eichmann
Eichmann viene dipinto dalla Arendt come un uomo mediocre e di scarsa cultura: un grigio burocrate, poco sveglio e riconoscente al nazismo per avergli concesso una carriera.
Oltre al fatto che la difesa fu condotta in modo superficiale, Eichmann difettava di una cattiva memoria, elemento che certo non gli fu d'aiuto durante il processo.
Tuttavia, ciò che traspare dalla figura di Eichmann, secondo l'umile parere di chi scrive, è il ritratto di un uomo completamente asservito a un sistema criminale, che porta sulla coscienza il peso di questa sua scelta.
La smorfia clownesca che gli corrode la bocca a ogni domanda rivolta, quello sguardo remoto e distante - eppure tanto fermo e diritto - nel narrare i propri crimini identificano un uomo che, seppure nel suo intimo, ha accettato i crimini commessi e paga lo scotto nella sua anima.
Eichmann nel corso del suo processo in Israele.
Un personaggio sopravvalutato
Per via di un continuo rimandare di colpe e responsabilità da parte dei criminali nazisti, il ruolo di Eichmann nella soluzione finale fu grandemente sopravvalutato, ma il modo in cui questo personaggio prese seriamente questa mansione rimane comunque agghiacciante.
Quando, sul finire della guerra, il Reichsführer Enrich Himmler, ai cui ordini Eichmann rispondeva direttamente, gli ingiunse di risparmiare la vita a qualche ebreo, così da usarli come ostaggi per gli alleati, Eichmann preferì obbedire agli ordini di Adolf Hitler.
Consiglio a tutti la visione del film documentario Lo specialista, che parte proprio dalla suggestione iniziale di questo libro.
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