Il culto dei morti e degli eroi come espressione dell'esigenza umana di esorcizzare la guerra. Sacrifici umani aztechi, necrolatria biblica e coranica, kamikaze orientali e ogni altro aspetto inerente l'esorcizzazione del "fenomeno morte" si sono stratificati nell'arco della storia umana fino ad assumere connotati accettabili anche dall'uomo moderno.
Teschio mesoamericano ricoperto da mosaico con serpente alato. Reperto conservato presso il Museo di Etnologia a Leiden, Paesi Bassi.
L'uomo, in quanto animale razionale, possiede quell'aspetto comunemente denominato autocoscienza. Essa, in una definizione di massima, si può caratterizzare come la capacità umana di percepire la propria esistenza. Ora, se pure accettiamo come dato di fatto quest'abilità umana, dobbiamo pur sempre tenere conto del fatto che l'autocoscienza non è una struttura monolitica, ma si estrinseca in più varianti, secondo le varie attività dell'essere umano cui essa si riferisca. Troveremo allora l'autocoscienza dell'esistenza, della procreazione come mezzo della trasmissione della vita, della razionalità come surplus del cervello umano e anche l'autocoscienza della morte.
Proprio sotto quest'ultimo aspetto, si complica notevolmente il compito di colui che si prefigga uno studio approfondito delle correlazioni esistenti tra guerra e atteggiamento psicologico dell'uomo nei confronti dell'atto "morte". L'Uomo, inteso come discendente di una serie in concreto ininterrotta di esseri tipologicamente identici (coscienza di stirpe attraverso la riproduzione), ha una difficoltà enorme nell'affrontare la propria morte. E' così grande il timore che sorge nella nostra mente nel concepire la fine dei nostri pensieri che la morte viene negata, attraverso le varie teorie salvifiche. Tale negazione della morte personale non implica però che il fenomeno morte sia in ogni caso confutato, anzi si può affermare che l'autocoscienza della morte sia stata la prima fase di apprendimento dell'autocoscienza in generale. Ciò è stato possibile perché anche se l'uomo tendenzialmente nega la propria morte, lo stesso non si può dire della morte degli altri. Questa relazione con gli individui altri da sé non è comune nel mondo animale. Un animale difficilmente è in grado di distinguere tra un suo simile morto o semplicemente addormentato. Invece l'uomo ha la piena consapevolezza che un altro uomo può o addirittura deve morire.
Così, attraverso la morte degli altri, il singolo essere umano è capace se non di accettare, almeno di comprendere la propria fine. L'assunto s'ingigantisce entrando nel territorio antropologico dell'esperienza bellica. La morte in guerra fin dai tempi antichi non viene ritenuta semplicemente un'eventualità, ma un evento dalle alte probabilità di realizzazione. Sebbene esistano nella storia esempi di guerre per così dire "trasposte", in altre parole contrasti risolti con il passaggio dell'inimicizia dalla massa a singoli individui (riportati anche negli esempi classici di Achille contro Ettore nell'Iliade o degli Orazi contro i Curiazi nella guerra tra Alba Longa e Roma), nella nostra relazione ci limiteremo a ciò che avvenne o avviene nelle lotte tra tribù e popoli per quel che riguarda l'antichità e tra nazioni per il periodo contemporaneo.
Per esorcizzare la paura del combattente di morire personalmente o di vedere morire coloro che combattono al suo fianco, già in tempi remotissimi, furono escogitate due soluzioni primarie:
- i riti sacrificali;
- la necrolatria o culto dei morti.
E' difficile stabilire una preminenza temporale tra i due fenomeni, perché sembrano essere nati pressoché contemporaneamente. Eppure essi hanno due finalità differenti. Partiamo dai riti sacrificali.
Il disprezzo verso il nemico che porta morte e distruzione nella propria comunità, fece nascere un naturale e profondo risentimento verso di lui, che si risolveva inizialmente nel completo annientamento della tribù o popolazione che perdeva il conflitto armato. Questo tipo di soluzione rimase in voga finché i combattenti furono numericamente pochi e gli scontri poco più che risse di teppisti. Col crescere delle comunità umane e con la trasformazione dell'economia delle stesse da nomade a stanziale, si comprese l'utilità di avere manodopera a nessun costo. La strage indiscriminata si trasformò così in schiavitù. Popoli culturalmente avanzatissimi come i Greci ritenevano naturale quest'istituzione. Le necessità economiche però non fecero dimenticare quel sentimento atavico di odio che aveva caratterizzato i primi tempi della storia. Si procedette così a uno spostamento su singoli individui dell'acredine originaria.
Immagine della distruzione apportata a Oradour sur Glane dalle truppe tedesche durante la seconda guerra mondiale. Il massacro nella cittadina tedesca, come la successiva commemorazione postbellica, racchiude in sé, traslate in ambito moderno, entrambe le facce dell'esorcizzazione della morte in guerra: i sacrifici umani e il culto dei morti.
I sacrifici umani seguenti le guerre divennero diffusissimi. Sono famosi quelli degli Aztechi, principalmente perché truculenti e di enorme proporzione. Uccidendo nemici scelti appositamente, si conservava intatta la forza lavoro resa schiava e nello stesso tempo si soddisfaceva quella sete di vendetta causata dalla guerra. La creazione di templi dedicati a questi sacrifici rese necessaria anche una casta sacerdotale che si occupasse dei riti e proprio col nascere delle religioni politeiste non più legate all'animismo e al naturalismo, si ebbe la seconda importante modificazione del fenomeno. I sacrifici di prigionieri non erano più conseguenza delle guerre, ma addirittura causa d'esse.
Si combatteva e si uccideva per procurarsi individui da sacrificare a divinità guerriere assetate di sangue o semplicemente per placare fenomeni naturali quali siccità o eruzioni, come nella tradizione delle isole Hawaii. L'abbandono di tali usanze è avvenuto con estrema lentezza, giungendo fino all'età moderna come nell'esempio azteco ricordato poco sopra. Anzi, affermare che il sacrificio del nemico sia stato completamente abbandonato è scorretto, in quanto tuttora è possibile rinvenire in periodo bellico alcuni episodi che molto si avvicinano a quel tipo di espressione dell'odio verso il nemico.
Esempio tipico è la rappresaglia, addirittura riconosciuta nel diritto pubblico internazionale anche se con modalità diverse e meno cruente di ciò che avviene normalmente nei conflitti armati. Le operazioni di rastrellamento ed esecuzioni di massa perpetrate in molte guerre compreso il secondo conflitto mondiale - di memoria imperitura deve essere quanto accaduto a Oradour-sur-Mer e Marzabotto - ha molti tratti in comune con il sacrificio rituale del passato. Certo, i connotati di vendetta ingiustificata hanno sopraffatto il carattere religioso dell'avvenimento, ma permangono ugualmente degli accenni di ritualità. Per esempio ci si ostina a dichiarare che quegli avvenimenti ebbero dei fondamenti giuridici, i famosi ordini da eseguire, proprio per rievocare degli schemi precostituiti e accettati dalla comunità internazionale. Oppure ci si rifugia nell'azione di ritorsione per mostrare come la malvagità fosse nella parte avversaria e che la violenza fosse solo una "giusta e adeguata" punizione, come nel caso delle Fosse Ardeatine in Italia.
Con la presa di coscienza di quali orrori abbia provocato una visione di questo genere durante la Seconda Guerra Mondiale, la possibilità di "sacrifici" giustificati in tempi moderni appare impossibile. L'odio verso il nemico viene espresso attraverso il disprezzo delle ideologie ed eventualmente dell'operato dell'avversario, ma mai nei confronti degli esseri umani. Almeno così è nella versione ufficiale e dominante in Occidente. Purtroppo, sono sotto gli occhi di tutti i massacri etnici in Africa e nell'ex-Jugoslavia. Pare che col venir meno delle istituzioni tipiche del tempo di pace anche le vecchie usanze riemergano forti quanto prima.
Fortunatamente, la diffusione del rispetto dei diritti umani non è puramente teorica. La capacità di vedere un uomo anche nel nemico è diventata comune nel pensiero del popolo e ciò ha permesso che trovasse gran risonanza come sostitutivo dell'odio verso l'avversario la seconda espressione del timore della morte in guerra e cioè il culto dei morti. Antropologicamente discussa, la necrolatria viene considerata come la sublimazione dei timori dell'uomo per la perdita della propria vita in battaglia attraverso l'elevazione dei caduti al rango di divinità. Ancora oggi come alle origini della storia umana, esistono tribù dell'Amazzonia o della Nuova Guinea che cercano di perpetuare la grandezza del guerriero morto attraverso la necrofagia, il cannibalismo rituale. Poter trattenere presso di sé, almeno in parte, la forza e il valore del defunto cibandosi del suo corpo dovrebbe essere affermazione dell'amore e del rispetto che si portava a quell'uomo. Giusto per questa ragione il trattamento sopra citato non era riservato unicamente ai propri compagni, ma anche al nemico. Variante del tema dell'antropofagia è anche l'usanza di trattenere parti del corpo del nemico ucciso su di sé. Gli abitanti del Borneo e le loro teste mummificate o gli indiani d'America e i loro scalpi non sono che due tra gli innumerevoli esempi che si potrebbero fare.
L'ufficiale giapponese Kiyoshi Ogawa, il kamikaze che si schiantò sulla portaerei americana Bunker Hill l'11 maggio 1945. Nonostante il cammino di morte intrapreso, in questa immagine Ogawa è ancora capace di mostrarsi felice, evidenziando la potente arma psicologica costituita dalla necrolatria.
Ciò che in principio era strettamente legato alle convinzioni animiste dell'uomo primitivo fu completamente sconvolto dal sopraggiungere delle religioni monoteiste. Già gli ebrei veterotestamentari furono portatori di un culto dei morti in guerra del tutto differente rispetto ai predecessori. Colui che moriva in battaglia era un prediletto di Dio. Ciò comportò anche una modifica della visione della guerra in sé, che divenne "santa". Il Giosuè del mito ebraico è portatore di distruzione e morte in nome di Dio e coloro che cadono seguendolo lungo la strada verso la conquista della Terra Promessa assurgono al ruolo di santi ante litteram. Ciò che era solo un'avvisaglia nell'ebraismo, trova pieno compimento con l'islamismo delle origini. Il guerriero non deve temere la morte perché con essa egli potrà raggiungere il Paradiso dei combattenti, dove tutto ciò che gli era negato nella vita gli verrà finalmente donato. Sulle stesse basi troveranno terreno fertile i predicatori delle Crociate Cristiane, con l'aggravante di una distorsione enorme del messaggio di amore e comprensione universale contenuti nel Nuovo Testamento.
Nonostante, come appena visto, il culto dei morti in guerra sia stato e sia tuttora diffuso in Occidente, basti pensare alle commemorazioni per il Milite Ignoto o per i caduti nelle varie guerre che sono tipiche della tradizione laica di numerosi stati europei e nordamericani, esso trova la sua collocazione ideale nell'Estremo Oriente, soprattutto in Giappone. Lo scintoismo nazionalista nato nel XIX secolo si fondava sul necessario sacrificio del guerriero e sulla sua conseguente elevazione ai livelli degli Dei. Nell'aneddotica bellica, per esempio, si afferma che i Kamikaze durante la Seconda Guerra Mondiale nel Pacifico, terminarono i propri attacchi suicidi verso il mese di Giugno del 1945 non perché mancassero i volontari, ma perché la produzione industriale della nazione del Sol Levante non era più capace di fornire un numero sufficiente di velivoli!
Dopo la fine della guerra, gli occupanti americani furono costretti a vietare gli assembramenti davanti ai templi in memoria dei caduti in guerra per evitare che si trasformassero in rivolte. Nonostante tutto ciò la mistica che sostiene l'ideale del Samurai permane anche oggi, seppure in una visuale post industriale che in qualche misura dovrebbe esserne l'antitesi. Invece, l'efficienza sul lavoro e addirittura la "morte in fabbrica" possono vedersi come una trasposizione contemporanea del culto del guerriero.
I lati negativi del culto dei morti che sono stati delineati - giustificazione della guerra in sé, sacrificio immotivato del nemico e della propria persona - soccombono davanti alla ineluttabile necessità di esorcizzare la morte in battaglia. L'uomo non nega l'esistenza del fenomeno morte in guerra, ma provvede prontamente ad attribuirgli un significato moralmente elevato per lenire il dolore e la paura che essa provoca. Il ricordo dei caduti e pure il feticismo contemporaneo che si esprime in tempi moderni nella ricerca spasmodica di oggetti appartenuti ai combattenti morti (armi, medaglie, altri oggetti personali) non devono essere visti come un'adorazione della guerra o una sua invocazione, bensì come sovrastruttura della coscienza umana, anche collettiva, per non prostrarsi davanti all'incognita della morte.
Fonti e letture consigliate:
Gaston Bouthoul, Le Guerre - Elementi di polemologia, Longanesi
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