L'emancipazione femminile è un fattore decisivo nella costruzione di una vita qualitativamente migliore.
(Herbert Marcuse)
Il 24 giugno 2018, l'Arabia Saudita concede alle donne il diritto di guidare, ma nel paese non cessano le violazioni dei diritti umani.
Sembra che di strada ne sia stata fatta da quando re Salman, nel 1990, punì una cinquantina di donne che avevano preso parte a una manifestazione contro il divieto di guidare. Quanta strada? In realtà ben poca. Perché in un paese in cui a tutt'oggi la donna è obbligata a indossare l'abaya pena l'arresto, a interagire solo con uomini di famiglia, le è fatto divieto di camminare liberamente in luoghi pubblici, accedere a uffici/università/banche se non attraverso un'entrata separata, le è imposto dalla nascita alla morte un tutore maschio (il marito o un parente) che gestisce ogni aspetto della sua vita, perfino gli interventi chirurgici e quelli di salvataggio di emergenza (a causa di tale vincolo, nel 2002, 15 ragazze intrappolate in un dormitorio morirono perché non avevano il consenso dei tutori a essere salvate!), ebbene in un paese come questo, guidare un'auto, sebbene sia certamente un fatto positivo, è poca cosa. Si potrebbe definire piuttosto uno specchietto per le allodole, poiché questa concessione porterà un vantaggio più alla politica economica del paese che al genere femminile. Perché? Sostanzialmente per due ragioni: pubbliche relazioni e ritorno economico. E lo dimostra il fatto che le attiviste saudite sono state escluse da questo processo detto di "rinnovamento"; nella storia del Regno, molte di loro sono state zittite a suon di carcere e frustate. Lo stesso Re che ha appoggiato il decreto è un uomo che di vera emancipazione e riforme non vuole sentir parlare, che molesta, diffama, perseguita, priva del lavoro e incarcera chi si batte per i diritti delle donne. Nel Regno wahabita ultraconservatore dei Saud, la vita della donna dipende dalla volontà e dai capricci del maschio.
Ma torniamo a quelle due ragioni famose. Perché l'Arabia Saudita dovrebbe impegnarsi nel fare pubbliche relazioni per avere un ritorno economico? Innanzitutto per ottenere consensi globali in vista di Vision 2030, un ambizioso piano post-petrolifero (l'oro nero è destinato a finire) che ha come obbiettivo l'incremento delle esportazioni non petrolifere e l'occupazione interna, il divenire un motore globale di investimento (attenzione a quella parolina, "globale"), e il posizionamento strategico del Regno tra Asia, Europa e Africa. Quale scelta migliore, agli occhi del mondo, se non una concessione di libertà alle donne come segnale di apertura? Senza considerare, poi, che molte saudite acquisteranno un'automobile per recarsi in autonomia sul posto di lavoro: Vision 2030 punta a rivitalizzare l'economia anche attraverso l'occupazione femminile che, secondo i calcoli, dovrebbe incrementare del 30%. I tagli dei posti di lavoro dovuti all'abbassamento del costo del petrolio si sono fatti sentire nel Regno e i nuovi progetti mirano a ovviare. E mentre il mondo esulta, per la donna-saudita-al-volante-pericolo-costante, è stato inaugurato in sordina un centro di detenzione per coloro che trasgrediscono il codice stradale.
Non è tutto. Nel 2017 Mohammed bin Salman, figlio del Re, è diventato principe ereditario. Dopo aver fatto piazza pulita dei suoi oppositori, ha pensato bene di costruirsi una "buona" immagine, così ha usato la questione dei diritti delle donne come arma per il suo proposito. Quando il principe dichiarò in un'intervista, tempo addietro, che le donne saudite non lavorano "solo perché non sono abituate", l'attivista Loujain al Hathloul rispose con una lunga lista di donne disoccupate in attesa di impiego e finì in galera, dove si trova a tutt'oggi. A bin Salman sono più simpatiche le signore di ceto medio animate da sentimenti conservatori religiosi, quelle che dichiarano alle TV di mezzo mondo «il mio tutore sa cosa è meglio per me». A proposito di TV, anche un'emittente italiana, circa un mese fa, ha mandato in onda un servizio in cui alcune saudite millantavano libertà, progresso ed emancipazione. Sul perché lo abbia fatto dubito sia stato per ingenuità, il lettore faccia le sue debite considerazioni. Qualcosa io avrei in mente. «Le aziende italiane hanno tutte le credenziali per essere protagoniste dei piani di sviluppo dell'Arabia Saudita», riporta il sito del Ministero degli Esteri del nostro paese, a proposito di Vision 2030. Il Regno, secondo il rapporto del Sipri (Istituto Internazionale di Ricerche sulla Pace di Stoccolma), è uno dei maggiori clienti del panorama islamico dell'Italia per l'acquisto di armi (736 milioni), per non parlare dello shopping pesante come quello degli elicotteri, ad esempio (poche settimane fa ne ha acquistati "un po'" da Leonardo ex Finmeccanica), e investimenti diversi.
Last but not least, dal 2017 l'Arabia Saudita è uno dei 45 paesi che siedono nel panel ONU per "promuovere i diritti delle donne, documentare la realtà delle vite femminili in tutto il mondo e modellare le norme globali sulla parità di genere". Eppure ricopre una delle ultime posizioni al mondo del Report sulla Disparità di Genere e non ha mai firmato la Dichiarazione Universale dei diritti umani, senza contare le numerose esecuzioni capitali che avvengono ogni anno nel paese e i crimini di guerra (commessi ad esempio nello Yemen) di cui l'ONU pare fare orecchi da mercante. Sembra che almeno cinque Stati dell'UE abbiano votato (n.d.r. il voto è segreto) affinché i sauditi entrassero nella commissione per "promuovere i diritti delle loro donne". Grottesco, no?
Sitografia
http://sicurezzainternazionale.luiss.it/
https://www.ilfattoquotidiano.it/
Altre fonti
Internazionale rivista n.1262
Copyright © 2006-2024 Gianluca Turconi - Tutti i diritti riservati.