La religione e la cultura celtica si sono spesso intrecciate con eventi storici di grande importanza, da Alessandro Magno alla caduta dell'Impero romano, passando per la conquista della Gallia da parte di Giulio Cesare. Scopriamo quale rilevanza storica e mistica ha avuto questo popolo spesso sottovalutato unicamente per non aver creato grandi regni duraturi.
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La campagna gallica di Cesare
Il condottiero gallico Vercingetorige si arrende a Giulio Cesare.
L'impresa legata ai Celti sicuramente più nota, loro malgrado si potrebbe dire, è la campagna che Cesare condusse in Gallia tra il 58 e il 52 a.C. Qui le tribù non erano affatto coese e unite e il condottiero romano, introducendo un concetto cardine della futura politica di Roma, quello del "divide et impera", approfittò di queste loro divisioni per sottometterle. Dopo il consolato del 59 a.C., Cesare ottenne per decreto del Senato il governo della Gallia Cisalpina, dell'Illirico e, dopo la morte improvvisa del suo governatore, anche quello della Gallia Narbonese (Provenza). Le sue intenzioni erano di mantenere una stretta tutela sull'Italia, centro del potere di Roma, ma queste tre province rappresentavano anche una piattaforma ideale per la sua conquista della Gallia. Non potendo, però, dichiarare guerra ad alcuno senza il consenso del Senato, dovette aspettare l'occasione buona, che gli venne fornita dalla migrazione degli Elvezi (tribù celtica residente in Svizzera) nel territorio degli Edui.
Dietro richiesta di questi ultimi, egli entrò in azione sgominando gli Elvezi e costringendo i sopravvissuti a tornare in Svizzera. Fu poi la volta degli Svevi, popolazione germanica che si era stanziata nel territorio della tribù dei Sequani. Li guidava l'astuto capo Ariovisto, un nemico temibile e anche diplomaticamente scomodo, visto che in passato il senato gli aveva conferito la qualifica di "amico del popolo romano". Cesare occupò l'avamposto sequano di Vesontio (Besançon) e sconfisse gli Svevi respingendoli sul Reno. Con un'abile politica di alleanze e una serie di scontri militari, riuscì poi a sottomettere le popolazioni barbariche dei Belgi, dei Veneti, dei Menapi, dei Treviri e degli Eburoni, successi a cui vanno aggiunti quelli ottenuti contro i germanici Usipeti e Tencterii, tra il 55 e il 56 a.C., e la breve ma vittoriosa campagna in Britannia contro il re Cassivellauno, monarca del territorio attorno al Tamigi nel 55 a.C.
Alla scadenza del mandato, nel 54 a.C., Cesare se lo fece rinnovare per altri cinque anni dal senato romano, ma nel frattempo un nuovo personaggio si affermò per riunire le tribù galliche insofferenti verso il dominio romano: il giovanissimo e coraggioso re arverno Vercingetorige. Lo scoppio della guerra gallica colse Cesare a Roma, dove si trovava per "controllare" la situazione venutasi a creare con la morte del tribuno della plebe Clodio. Il condottiero romano tornò in Gallia a marce forzate e si ricongiunse con le sue undici legioni, circa 70.000 uomini, riprendendo possesso delle città di Gergobina e Avarico (l'odierna Bourges), quest'ultima difesa ad oltranza nonostante il parere contrario di Vercingetorige. Tra i rivoltosi l'episodio fece paradossalmente ottenere notevole credito al capo barbaro, che aveva più volte avvertito dell'impossibilità di sconfiggere i Romani in campo aperto. La campagna militare prese una piega inaspettata, e negativa per i legionari di Cesare, a Gergovia (riguardo i dubbi sulla posizione di Gergovia, rimando a questo link http://kidslink.bo.cnr.it/irrsaeer/lat/oppida/frameset9.html) la capitale degli Arverni, dove il condottiero romano subì la prima sconfitta in cinque anni, ad opera della furiosa carica di cavalleria guidata da Vercingetorige, lasciando sul campo 46 centurioni e 700 legionari (molti riportano questa stima perché Cesare (7, 50-51) parla di poco meno di 700 uomini morti avendo in separata sede parlato di 46 caduti tra i centurioni, ma non è chiaro se con "uomini" intendesse solo i legionari o l'insieme dei caduti). L'insuccesso determinò la defezione degli Edui, tradizionalmente amici di Roma, che passarono dalla parte dei rivoltosi lasciando i Romani privi in pratica di alleati in Gallia.
Compresa la gravità della situazione, Cesare decise di attuare una finta ritirata verso sud, nella Gallia Narbonese, con la speranza che i rivoltosi, lanciandosi all'inseguimento, cadessero in trappola. A tale scopo richiamò il generale Labieno dal nord, impegnato contro i Parisii, e assoldò la cavalleria mercenaria germanica, molto temuta dai Galli.
Vercingetorige, come si diceva, era consapevole della superiorità militare dei Romani e perciò riluttante a impegnarsi in uno scontro decisivo. Pensò, quindi, di attuare una tattica di guerriglia, colpendo le linee di rifornimento, i carriaggi e le pattuglie di esploratori. Questa scelta, però, non fu approvata dai suoi alleati e sottoposti, che spinsero per una battaglia in campo aperto, mossi anche dalla brama di ottenere bottino. Vercingetorige non poté sottrarsi all'entusiasmo dei suoi guerrieri, e cadde nella trappola di Cesare. In uno scontro diretto venne sconfitto dai Romani e costretto a rifugiarsi all'interno della città fortificata di Alesia. Corrispondente all'odierno Mont Auxois (ad est del centro francese di Alise-Sainte-Reine, vicino Digione, nella Côte d'Or) e situata sulla sommità di un altipiano, lambita da due corsi d'acqua, con tre colline di eguale altezza a nord, est, sud e una larga pianura (Plan des Laumes) ad ovest, la città di Alesia era tutt'altro che imprendibile, soprattutto per un esercito come quello romano, perfettamente organizzato e all'avanguardia nell'arte della poliorcetica.
Non potendola conquistare con un assalto diretto, Cesare decise di assediare la città approntando una serie di fortificazioni imponenti, costituite da un doppio anello di trincee con 23 fortini e 8 accampamenti di cavalleria e fanteria. Era un sistema già realizzato dai Romani per l'assedio di Lilibeo, Capua e Numanzia, e quindi non si può attribuire al condottiero romano il merito di averlo inventato, ma noi conosciamo così bene questa strategia di assedio perché è lo stesso Cesare a descrivercela. Egli, dunque, fece scavare fossati, terrapieni, palizzate con merli e camminamenti, e lungo di esse torri che ospitavano macchine da guerra leggere (scorpioni e catapulte). Per proteggersi le spalle dall'eventuale arrivo di rinforzi barbari eresse due palizzate specularmente opposte, una rivolta verso l'esterno e l'altra verso l'interno; di fronte alle fortificazioni fece collocare ostacoli e trabocchetti: file di tronchi con i rami intrecciati e pungenti (cippi), schiere di pali aguzzi nascosti da cespugli (gigli), una fascia di pioli muniti di punte di ferro (stimuli).
Al termine dei lavori, dopo cinque settimane, il vallo interno si estendeva per 16,5 km, mentre la circonvallazione ne misurava 21. Cesare, a questo punto, era pronto a dare battaglia.
Vergingetorige nel frattempo, trovandosi a corto di viveri, fu costretto a prendere la terribile decisione di far uscire dalla città donne e bambini. L'alternativa, come qualcuno dei suoi propose, era quella di nutrirsi di tutti coloro che fossero stati inabili alla guerra. Cesare, comprendendo che in città donne e bambini avrebbero consumato il cibo dei difensori (così come quello degli assedianti se invece fossero usciti dalla città), non acconsentì a che oltrepassassero il vallo romano, condannandoli a una tragica morte.
Il giorno dopo si affacciò sulle colline di sudovest l'esercito barbaro di soccorso. I Galli erano riusciti a raccogliere 240.000 fanti e 8.000 cavalieri (in gran parte Edui, Arverni e i loro alleati e vassalli).
Li guidava l'atrebade Commio, coadiuvato dagli edui Viridomaro ed Eporedorige e dal cugino di Vercingetorige, Vercassivellauno. Il contingente, per quanto numeroso, era meno consistente di quello che il capo ribelle assediato ad Alesia sperava. Per ragioni legate alla difficoltà di rifornimento e all'indisciplina tipica dei Celti venne deciso, infatti, di non reclutare tutti i guerrieri validi ma solo una parte. La battaglia di Alesia durò tre giorni, con assalti e contrattacchi furiosi, che costrinsero i Romani a presidiare con piccoli distaccamenti di coorti le torri, con la speranza che le trappole bastassero a contenere gli assalitori e le riserve fossero sufficienti a tamponare i punti più a rischio. I Galli, però, non riuscirono mai a coordinare gli attacchi né a utilizzare tutta la forza del numero: questa fu la debolezza che significò la loro sconfitta.
Decisivo fu l'apporto in aiuto di Cesare della cavalleria germanica. Al termine del secondo giorno di battaglia, Vercassivellauno venne fatto prigioniero e Commio ordinò la ritirata generale sciogliendo definitivamente l'esercito di soccorso. Il giorno dopo, Vercingetorige comprese che non era più in grado di dare battaglia e decise di arrendersi. Uscì solitario da Alesia, a cavallo, nella sua armatura più splendida e fece un giro attorno al seggio di Cesare, dove il condottiero romano lo aspettava, poco fuori il suo accampamento; si tolse, infine, l'armatura e la gettò ai suoi piedi. Vercingetorige morirà prigioniero nel 46 a.C., dopo aver sfilato a Roma in onore dei quattro trionfi di Cesare, tra i quali quello per la vittoria in Gallia.
I Celti in età romana e altomedievale
Una pattuglia di soldati gallici. Il loro coraggio e il loro valore fu sempre riconosciuto da tutti gli avversari, tanto da farli divenire ottimi mercenari in periodo altomedievale.
Dopo la morte di Cesare, Augusto, una volta liberatosi dei suoi contendenti, portò a termine la conquista del popoli celtici ancora indipendenti: li vinse in Dalmazia, nelle Alpi Occidentali e sottomise le popolazioni celtiche della Rezia e del Norico.
La Britannia, a parte una piccola puntata da parte di Cesare, rimase immune dalla conquista romana fino all'avvento dell'imperatore Claudio, tra il 43 d.C. e il 48 d.C., quando, con grosse difficoltà, si riuscì a sottomettere parte dell'isola nella speranza di ottenere straordinarie ricchezze che, a eccezione di gradi giacimenti di stagno, risultarono solo un miraggio. Nel 61 d.C., però, scoppiò una rivolta orchestrata da Budicca, vedova dei re degli Iceni, ai quali si aggiunse la tribù dei Trinovanti. Vennero date alle fiamme le colonie romane di Camalodunum e Verulamio, ma la reazione romana, guidata dal generale Svetonio Paolino, fu tremenda e portò alla sconfitta dei rivoltosi e al suicidio della coraggiosa regina. Sotto l'imperatore Flavio Domiziano, nell'80 d.C., il generale Agricola arrivò fino alla Scozia, ma l'imperatore non permise che la conquista fosse portata a termine.
Nel II sec. d.C. Adriano e poi Antonino stabilizzarono e misero in sicurezza il territorio britannico, costruendo due "valli" nei quali stanziarono numerose unità militari. Particolarmente monumentale è il Vallo di Adriano, che rimarrà la vera e propria frontiera tra la "civiltà" e i feroci Pitti scozzesi. Questi ultimi non vanno confusi con quella popolazione che Robert E. Howard descrive nei suoi romanzi, benché egli abbia testimoniato in maniera abbastanza verosimile il loro coraggio e il loro sprezzo del pericolo.
Alcuni resti umani trovati ai piedi delle fortificazioni adrianee, infatti, ci testimoniano che essi non esitavano ad affrontare le poderose macchine belliche di cui i Romani erano dotati.
Gli abitanti della Gallia e, in genere, tutte le popolazioni celtiche sottomesse da Roma conobbero soprattutto nel I e nel II sec. d.C. un grande fulgore: i vitigni della Provenza iniziarono a fare concorrenza a quelli italiani, e l'odierna Francia, la Spagna e altre province "celtiche" si riempirono di città, nate per imitare le strutture urbane dei conquistatori o sorte da antiche installazioni militari. I Celti, peraltro, introdussero a Roma il sapone e la cotta di maglia. Importante fu l'integrazione e la civilizzazione di queste popolazioni, considerate selvagge ma ora accluse con merito nella romanità. Già Cesare aveva arruolato molti soldati dell'Italia del Nord, e questo processo d'integrazione e di civilizzazione continuò in età imperiale, soprattutto a partire da Claudio, che nel 48 d.C. accolse in senato membri della tribù celtica degli Edui. Ben presto anche il sommo consesso di Roma, simbolo della sua élite politico-economica, si riempì di membri di origine gallica. Il III secolo d.C., caratterizzato da momenti di seria crisi da parte dei Romani, vide la Gallia e la zona danubiana al centro di invasioni e di secessioni (a questo periodo risale la fondazione di un effimero Imperium Galliarum), fenomeni bellici che impoverirono oltremodo queste regioni portandole alla decadenza. La povertà causò anche la diffusione del brigantaggio: i briganti, noti come bagaudi (dalla parola celtica guerriero), erano ex soldati o contadini esasperati dalle tasse che crearono seri grattacapi al governo di Roma in Gallia.
Tale processo di decadenza e le sue conseguenze si protrassero anche nel secolo successivo, e solo la Britannia ne rimase pressoché immune, sebbene fosse continuamente molestata dai barbari Pitti e dai pirati Scoti e Sassoni, questi ultimi di origine germanica. L'isola, di solito a margine degli avvenimenti del mondo romano, divenne protagonista con il fallito tentativo di Magno Massimo di assurgere al trono imperiale. Egli si era messo in luce in una campagna militare contro i Pitti, alleati con gli Scoti e i Sassoni, e venne ricordato per questo nelle leggende britanniche paradossalmente proprio come eroe celtico, pur essendo gli stessi Pitti e Scoti di quella schiatta.
La vitalità del mondo gallico e il legame ormai indissolubile con i Romani è testimoniato, ancora nel V secolo d C., dall'effimera presenza di un regno romano-gallico guidato da un certo Siagrio, e, perché no, dalla resistenza esercitata dai Gallo-romani in Britannia (che sfociò forse nella figura del mitico Artù) e poi dalla pacifica invasione della Bretagna alla fine del V secolo d.C. Su Artù molto si è detto e scritto: la nostra principale fonte storica è Nennio, che ci ricorda nella sua Historia Brittonum della sfolgorante vittoria di questo capo britannico nella non ben definita località del Mons Bedonicus. Goffredo di Monmouth, attorno al 1136-1138, raccoglie queste tradizioni storiche e mette in connessione vari miti e personaggi che nulla hanno a che fare l'uno con l'altro, come la figura di Merlino e dello stesso Artù.
Come si diceva, non è affatto inverosimile che l'elemento romanizzato della Britannia si sia opposto ai feroci Pitti e ai barbari germani (Sassoni, Angli, Juti), anzi sappiamo da un'altra fonte, lo storico Beda, che questi ultimi originariamente servivano ai Britanni come mercenari per far fronte alle violenze dei loro feroci conterranei del nord. Ben presto, tuttavia, i mercenari scalzarono gli antichi "padroni", con la collaborazione di un capo celtico, un certo Vortigerno. Costantinopoli inviò, allora, attorno al 417 d.C., un comandante romano, Ambrogio Aureliano, che ottenne alla guida del suo esercito una schiacciante vittoria sui barbari, nota come battaglia dell'Alleluia. Egli avrebbe, poi, governato la Britannia nel ruolo di vicarius e viene dunque da chiedersi, ammesso che la tradizione di Beda sia corretta, se Artù non possa essere un successore di questo condottiero romano. Beda parla di un imperatore Costanzio, ma l'Oriente era retto all'epoca da Teodosio II, quindi mi viene da ipotizzare che questo fantomatico Costanzio sia in realtà il generale Flavio Costanzo, marito di Galla Placidia e associato per breve tempo all'imperatore d'occidente Onorio. I Britanni, comunque, dovettero alla fine cedere di fronte alla pressione di Angli e Sassoni: alcuni di loro si rifugiarono nell'odierna Bretagna, come si è detto, ma anche in Galles; mentre i Pitti vennero definitivamente sottomessi dagli Scoti di origine irlandese (da qui il nome Scozia).
L'Irlanda rimase immune dall'influenza e dal dominio di Roma, ma gli si attribuisce un merito straordinario: dai monasteri irlandesi, in epoca medievale, partì un fenomeno di evangelizzazione di ritorno che coinvolse molte località europee. In Italia è famoso il monastero di Bobbio; qui, insieme al lavoro e alla preghiera, si copiavano le antiche opere dei classici. questo il meraviglioso paradosso che la storia ci restituisce: i barbari, coloro che si erano opposti secoli fa alle civili popolazioni mediterranee, divennero essi stessi paladini e divulgatori della cultura latina.
Bibliografia consigliata
(per facilitare la consultazione dei testi si è inserita soltanto la bibliografia edita o tradotta in Italia):
AA.VV., I Celti d'Italia, a cura di E. Campanile, Pisa 1981
I Celti, Catalogo della mostra, Palazzo Grassi, Venezia, Ed. Bompiani
A Demandt, I Celti, Ed. Mulino, 2003
J Filip, I Celti alle origini dell'Europa, Roma, 1980
M. T. Grassi, I Celti in Italia, ed. Longanesi, 1991
G Herm, Il mistero dei Celti, Milano 1981
V.Kruta-W Forman, I Celti Occidentali, Novara, 1986
U. Maiorca, Battaglia di Alesia, in Storiadelmondo n. 9 - Alesia
M. Szabò, I Celti, in Storia d'Europa, vol. II (preistoria e antichità, tomo II) Einaudi, 1994, pp. 755- 803
V. Kruta, La "grande" storia dei Celti, Newton Compton, 2003
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Testo riprodotto su autorizzazione della redazione di Terre di Confine e apparso sul numero 1, Anno II, della rivista.
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