Aspetta... Aspetta... Il carro nero che appare al Centro Scolastico? L'uomo che vende solo scarpe sinistre per le strade di Santiago? La cosa senza volto che vive nei tunnel sotto Puebla? ...Signore mio, queste non sono leggende, ma racconti del terrore, anzi persino peggio dei vecchi racconti del terrore.
Secondo la mia opinione, una leggenda è un fatto fantastico occorso molto tempo fa al quale il semplice passare del tempo ha conferito un carattere di verità.
Per esempio, l'affresco della Cattedrale realizzato da un morto per espiare i propri peccati è quasi cosa accettata da tutti. E vista la bassa qualità della pittura... solo qualcuno che non è di questo mondo può combinare così male i gialli... Ragazzo, se vuoi una leggenda non devi chiederla ai vecchi perché non otterrai altro che storie antiche. Guardati intorno. Ci sono, come minimo, un milione di leggende che si stanno creando in questo momento nella città. Si deve prestare attenzione a ciò che dice la gente, le leggende che esisteranno tra cinquanta o sessant'anni nasceranno da lì, da quelle parole che ora suonano come stupidaggini...
Hai sentito del vampiro che appare nei bagni di un supermercato dalle parti di San Manuel? Da sbellicarsi dalle risate, immaginati un essere millenario che spinge un carrello della spesa; Dracula sotto la luce al neon, di fronte a uno scaffale di cibo per cani... buon materiale... O dei mariachi che si congelarono nella piazzetta dei Rospi, mentre aspettavano un cliente; gelo nazionale: statue vestite di nero, con cappelli rustici, attrezzi del mestiere e sorrisi intensi... la cosa non è certa, ma che importa? La questione è abbellire, ragazzo, mettere il tuo granello di sabbia. Ascolta, non hai mai narrato dei racconti del terrore? ...Ricorda, allora, di metterti sempre come testimone: che mi fulminasse Dio se io non ero là, potevo sentire il respiro gelido del fantasma... poi racconta la tua storia con tutta la fede del mondo, vedrai che a metà del racconto già ti crederanno e i dettagli finali non saranno una mera invenzione, bensì un ricordo perfetto dei fatti...
La voce è molto importante e anche i gesti con le mani. L'atmosfera la crei tu, a volte con un sussurro, con uno sguardo sopra le spalle, sporgendoti verso il tuo pubblico, così come io mi inclino per dirti di un fatto a cui fui presente quando ero giovane e questa città differente, tanto diversa da come sarà la città di Puebla di cui racconterai un giorno ai tuoi figli.
A quei tempi, un gruppo di ragazzi, io ero tra loro, avevano un'illusione, sissignore, un'illusione: formare un'orchestra, suonare in tutte le feste e i balli, cosicché tutte le donne ci venissero dietro; in segreto ti dirò che dubitavamo di poter seguire la strada di Glen Miller o Pérez Prado. Il succo è che qualcuno sapeva suonare la chitarra, un altro strimpellava il piano, un altro ancora suonava la tromba "come i veri musicisti" e a me non uscivano tanto male i ritmi cubani dai tamburi. Eravamo sette in totale e un altro in aggiunta. Tutti con strumenti differenti, tranne quell'altro che aveva l'orecchio migliore di tutti noi e che segnalava chi stonava e come correggersi, in definitiva, colui che ci teneva uniti col suo buonumore ed entusiasmo.
E sai, un giorno non venne alle prove e quel giorno fu disastroso. Mancò anche la settimana successiva e la musica fu persino peggiore. Così, visto che eravamo incapaci di sopportare il nostro stesso rumore, ci dirigemmo a casa sua per vedere che diavolo gli era capitato. Ci ricevette la madre, molto seria e molto triste. Ci disse che suo figlio non sarebbe venuto alle prove perché era molto malato.
- Malato, signora?
Ella ascoltò e prima di dire qualcosa, si mise a piangere. Il nostro amico uscì nell'udire il pianto. Era irriconoscibile. Era un fantasma, il poveretto. Più debole delle nostre illusioni, più pallido dei nostri ascolti. Un'anima in pena che ci disse che stava un po' male, ma che presto sarebbe stato meglio.
Noi sorridemmo coraggiosamente e convenimmo con lui.
- Certo, amico, presto starai meglio.
- Ti vedo stanco, ma dormendo molto vedrai che ti passa.
- ...e il dottore cos'ha detto?
Silenzio intenso, i ragazzi mi fulminarono con lo sguardo.
- Che entro un mese non mi dovrò più preoccupare della malattia. - Tutti capimmo ciò a cui si riferiva, ma da come era conciato poteva succedere in un mese o una settimana, se non in quello stesso istante. - E voi cosa mi raccontate di nuovo?
- Niente. Suoneremo a una festa.
- Davvero?
- Ci puoi scommettere.
- E vi pagheranno?
- Pagare... pagare, no. Ma ci daranno qualcosa, è il compleanno di un'amica di Juan, vero? E si vuole mettere in mostra... in fin dei conti, non è per questo che esistono gli amici?
Sorrise e ci disse che gli sarebbe piaciuto assistere.
- È tra un mese - risposi. E di nuovo mi colpì il silenzio e gli sguardi duri degli altri ragazzi e io mi morsi la lingua per essere stato tanto stupido, ma il mio amico non se ne diede per inteso.
- Eccellente. Come vanno le prove?
- Rebien, vuoi la verità? Abbiamo già imparato tutti i pezzi e possiamo farteli sentire quando vuoi. Ti sorprenderemo.
Quella non era una semplice frase di cortesia. In realtà si sarebbe sorpreso: suonavamo assolutamente male, come se all'improvviso nessuno dei nostri strumenti potesse accoppiarsi agli altri. Lui era l'anima della nostro banda e stava morendo. Le liti erano giornaliere, c'erano stati tre autoproclamati capi del gruppo che non seguimmo mai. Avevamo bisogno di lui, della sua voce che ci incoraggiava, della sua presenza, delle sue brutte barzellette, della sua pessima pettinatura e del suo senso dell'armonia che mancava a tutti noi.
Il giorno prima della festa, ci attardammo tre minuti a provare quattro canzoni differenti e, naturalmente, ci rinfacciavamo la colpa a vicenda e a furia di gridare quasi venimmo alle mani quando, improvvisamente, arrivò il nostro amico che vide la nostra bella orchestra ormai ai ferri corti.
Seppe, come già lo sapevamo noi, che i nostri sogni non si sarebbero trasformati in realtà. Eravamo un completo disastro. Ma anche così ci sorrise e disse faticosamente:
- Ne suonate una per me?
- Sì, certo, quale vuoi?
- Quale vi viene meglio?
- Tutte. Be', alcune... in realtà, nessuna.
Tornò a sorridere, tutto ossa, malattia e occhi febbrili.
Seguite questo ritmo - disse, schioccando le dita. - È facile: tap-tap-tap.
Un'improvvisazione, perché no? Arturo, Dio l'abbia in gloria, cominciò a suonare il piano, il ritmo era veloce e attraente. Lo seguii anch'io, quella musichetta aveva gusto, credimi chico, qualcosa di simile a un ritmo caraibico. Una delizia, insomma, e Fernando, Dio l'abbia in gloria, cominciò a suonare la tromba come mai prima e si realizzò il miracolo: eravamo di nuovo una banda. Il nostro amico ci salutò soddisfatto e non lo vedemmo mai più. Morì quella notte e il giorno seguente andammo alla festa dell'amica di Juan, Dio l'abbia in gloria. Lo sai: lo spettacolo deve continuare, sempre.
Dire che eravamo tristi e abbattuti è poco. Conciati così, rovinammo la festa in quattro e quattr'otto. Facevamo della musica spaventosa. Il padrone di casa, molto gentile, ci chiese che riposassimo un momento.
- Smettete di suonare, ragazzi, vi vedo stanchi. È meglio che serviamo da mangiare, volete un caffè?
- Un caffè sarebbe perfetto.
E l'amica di Juan venne col suo sorriso più splendente a dirci che avevamo suonato molto bene e noi tutti desiderammo in quell'istante che la terra ci ingoiasse e, ti giuro non so perché, mi ricordai del nostro amico, dello schioccare delle sue dita, uno-due, unodue, ritmo. E le mie dita cominciarono a toccare i tamburi mentre gli altri mi guardavano con facce da martiri.
- Vuoi continuare a suonare?
In verità, non volevo. Ma il ritmo mi impose di continuare. Non ti è mai capitato di perdere un giorno intero senza poterti togliere un ritornello dalla testa? Bene, in quell'istante il ritornello era nelle mie dita, nei miei palmi, nel mio polso. Prima in forma timida, poi più animata, mi misi a suonare i miei tamburi. Era un ritmo rapido, stretto, nervoso. Santiago, Dio l'abbia in gloria, riconobbe la rozza improvvisazione che avevamo fatto per il nostro amico, sorrise mestamente, ma prese la sua chitarra per accompagnarmi. La tromba non si fece pregare. Uno due, unodue, UnOdUe, uNoDuE. Si sarebbe detto che interpretassimo qualcosa di simile al jazz, ma non è certo, non fu quello, comunque ci andò vicino. La musica ci teneva uniti sebbene ognuno fosse libero di proseguirla nella direzione preferita. Era una pista da ballo delle dimensioni di un continente, non importava quale direzione prendessimo nell'inventarla o quanto ampie fossero le nostre improvvisazioni: ci trovavamo sempre al suo interno.
In meno tempo di quanto ho speso qui adesso, eravamo già persi in quel ritmo, quasi alieni alla festa che si andava animando intorno a noi. Hai mai visto qualche film di Fred Astaire? No? Peccato. Comunque, in quelle pellicole Fred e Ginger si incontravano nel mezzo di un luogo qualsiasi, una strada, una stazione degli autobus, e all'improvviso la musica sorgeva da Dio sa dove e loro cominciavano a ballare e la Realtà tutta ballava con loro, seguiva i loro passi, il ritmo di quella melodia magica e la gente che prima camminava sullo sfondo della scena poi danzava, le pareti stesse giravano a quel ritmo per fare in modo che Fred e Ginger si immergessero in quella musica e nel suo potere inesauribile.
E allora si intravedeva un barlume di armonia perfetta. Non si può spiegare, ma noi suonavamo quelle note miracolose e non importava che il volume fosse assordante, il mondo intorno a noi ballava, immerso in quella melodia e noi non eravamo più noi, ma qualcos'altro, come se il ritmo avesse rotto la delicata tela che trattiene la Realtà.
I vetri vibravano in maniera tale che sembravano far parte della nostra banda e le cose ballavano sopra la tavola. Eravamo in una delle Silly Symphonies di Disney, nelle quali gli uragani giravano seguendo le note e gli alberi avevano vita propria e niente era casuale, bensì una parte perfettamente posizionata del Tutto.
Camminammo attorno alla casa? Non credo, la sensazione era diversa: che il suolo scivolasse sotto di noi, che dai nostri strumenti fluisse una corrente, una marea capace di trascinarci, di inondare i nostri corpi.
I miei tamburi erano sintonizzati perfettamente con la portentosa musica delle stelle.
Ci dissero che era possibile sentirci a venti strade di distanze, che le nostre note ruppero un'infinità di vetri e crearono buchi nei pavimenti, che uccidemmo qualche cane per lo spavento e che diversi gatti impazzirono. Ci parlarono di pappagalli divenuti muti e di uccelli che preferirono il suicidio. Non so se è vero.
C'è gente che ti dirà che tutto fu dovuto a qualche bicchierino di troppo e che non successe niente dell'altro mondo, ma ti posso assicurare che le sedie camminavano e che la tavola danzava con le pareti. La trasmissione della vibrazione da un oggetto a un altro si chiama simpatia. Bene, la casa intera simpatizzò con noi, ogni pietra di quel luogo, ciascuna lì attorno, i mobili e il giardino, le finestre e i tappeti, le porte e le scale.
Noi eravamo l'uragano, i nostri strumenti la strada. All'improvviso fummo vicini al Tutto, all'Armonia e il mondo era in pace, l'illusione del miracolo ci toccò quell'unica volta nella nostra vita, ma fu sufficiente. La Magia non è discreta, le piace esibirsi. C'è chi giura che mezza Puebla ci ascoltò e che un gruppo di persone si radunò intorno alla casa, timorose dello scandalo ma attratte proprio da questo. Centinaia che, senza alcuno motivo, cominciarono a tenere il ritmo con i piedi, con i palmi delle mani e subito erano lì, a ballare senza sapere perché, ignorando felicemente tutto.
E proprio loro, in quel caos di suoni che provocava il ballo, applaudirono quando la casa cominciò a camminare.
Be', non proprio a camminare, piuttosto a muoversi a piccoli salti, dondolandosi come un papero enorme di due piani, un essere di pietra e vetro che danzava. Perché no? Se è ciò che è successo, al diavolo la logica!
Se la musica abbatté le Mura di Gerico e calmò la furia delle belve, cosa c'è di strano nel fatto che quella casa cominciò ad avanzare nelle strade? Uno spettacolo che si è visto poche volte, devi credermi. Un sordo avrebbe pensato a un terremoto, ma noi non pensavamo a niente. Ricorda che gli oggetti danzavano in quell'istante e tutto ci parve molto naturale. Attraverso le finestre era possibile vedere come avanzavamo. Un metro, due, tre.
Un'automobile si fermò con uno stridio di freni e un uomo scese a vedere passare la casa, guardò fissamente la bottiglia d'alcol che aveva in mano e fu sul punto di gettarla a terra, ma - accidenti - dopo tutto la musica era bella e il momento opportuno, così ne bevve un sorso enorme e si unì alla festa e al suo ballo sfrenato.
I denti vibravano, così come tutti i metalli e gli oggetti. L'Universo era nostro ed era tutto intorno a noi. Lo comprendemmo nell'istante in cui lo sfinimento ci obbligò a lasciare gli strumenti.
La musica era vita e quella vita ce l'aveva regalata il nostro amico morto. Era un regalo d'addio e, contemporaneamente, il suo omaggio. Riposi in pace, che Dio l'abbia in Gloria...
Che altro posso dirti? Dopo quei momenti meravigliosi la realtà non ha più tanto senso ed è un poco grigia. Qualunque finale sarebbe insoddisfacente e questa storia può terminare solo con un anticlimax.
Guarda, quando smettemmo di suonare, la casa era dall'altro lato della strada, fortunatamente in un lotto vuoto, completa a eccezione di un mezzo bagno del primo piano rimasto indietro, e tutto il mondo sa che se c'è qualcosa che non è musicale è, precisamente, un mezzo bagno del primo piano.
La gente ne parlò, naturalmente, un evento di tale portata non può passare inosservato, ma chi ci avrebbe creduto? Una casa che cammina attraverso l'Avenida Reforma... per favore... una stupidaggine... una brutta barzelletta. La gente col senso comune non può far altro che riderne, ma c'è chi lo vide e ne parla, come io con te, e sanno che forse, tra cinquanta o sessant'anni, nel futuro, qualcuno crederà a questo fatto. Noi sappiamo che si sta formando una leggenda di qualche tipo che, ti giuro come giurano tutti i narratori di storie, si svolse proprio come ti ho detto: Io Ero Là...
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