Salve a tutti, ed eccoci di nuovo presenti sulla rubrica mensile di Letture Fantastiche.
Alcune delle sorelle Lisbon come interpretate nel film "Il giardino delle vergini suicide" diretto da Sofia Coppola.
Quest’oggi lo dedichiamo a un romanzo piuttosto controverso, uscito nel 1994 e partorito dalla penna minuziosa di Jeffrey Eugenides.
Molto più celebre del libro – molti lo hanno conosciuto proprio così – è la trasposizione che ne è stata fatta da Sofia Coppola nel 1999, nel cui cast figura una giovanissima Kirsten Dunst.
In quest’articolo ci concentreremo sul romanzo, ma non ci esimeremo dal dire che la pellicola si distingue per alcune scelte stilistiche ed evocative che ne fanno un prodotto brillante e delicato: sia al livello estetico sia scenografico.
Su tutte, le musiche degli Air e la fotografia opaca e nostalgica che ci riportano immediatamente allo stile di regia anni Novanta.
Cinque sorelle votate al suicidio
Ciò che stupisce del romanzo di Eugenides non è certo la trama, bensì la narrazione e l’attenzione che l’autore pone sul contesto che circonda le “giovani vergini”.
Uno dei pochi libri in cui, sin dalle prime righe, intuiamo inequivocabilmente cosa avverrà nell’epilogo.
I due infermieri del pronto soccorso all’inizio del libro – che giungono di corsa a casa Lisbon – sono gli stessi in tutta la cronologia degli eventi: uno descritto come grasso, l’altro magro con i capelli unti.
Si presentano ogni volta come ospiti fissi, le procedure di soccorso talmente ripetitive da sembrare un rituale, fino a chiudere il cerchio di morte delle cinque sorelle Lisbon.
La prima a suicidarsi è Cecilia, la più piccola; a essa seguiranno Bonnie, Therese, Mary e Lux.
Si toglieranno la vita tutte insieme, anche se c’è una piccola differenza rispetto al film.
Noi tutti Lux la ricordiamo con il volto di Kirsten Dunst.
A ogni modo, qual è il motivo reale di questa lunga catena suicidaria?
Su questo il libro tenta faticosamente di far luce, con un’indagine che al lettore apparirà addirittura maniacale, ma che non trova alcuna risposta convincente a questa tragedia.
Una lente di ingrandimento infallibile alla quale non sfugge nulla, ma sulla cui base risulta difficile elaborare una visione d’insieme.
Una narrazione collettiva
Quello che colpisce è una narrazione minuziosa dove, nel mezzo di una storia ricostruita vent’anni dopo, si scorge una cura per i dettagli che sfiora l’ossessione; un potere nostalgico e struggente che è incredibilmente evocativo.
La vicenda è testimoniata dal narrare collettivo di un gruppo di ragazzi.
Persino da adulti, i narratori non mancano di ricordare le sorelle Lisbon con desiderio e nostalgia: ne conservano alla mente ogni dettaglio.
Nella casa sull’albero da cui le spiavano, hanno messo su una specie di reliquario: tutti gli oggetti legati alle sorelle sono numerati in qualità di reperti.
Foto, pettini, creme, vestiti, il diario di Cecilia...
Alcuni di questi simulacri sono ammuffiti, sbiaditi dall’ombra decadente del tempo; molti sono stati recuperati nell’istante in cui la casa dei Lisbon veniva svuotata dai nuovi proprietari.
I ragazzi, tuttavia, non possono fare a meno di ricordare; continuano a domandarsi cosa le abbia spinte in quell’abisso.
A distanza di anni, intervistano e reperiscono informazioni da chiunque abbia avuto anche solo una parvenza di contatto con le sorelle Lisbon. Persino i genitori sono coinvolti in questa ostinata ricerca.
La risposta a quella domanda, tuttavia, appare sempre più sfumata. Si perde nell’evanescenza fumosa e patinata dei ricordi.
Nel mentre, le sorelle si caricano di un’aura sempre più mitica: appaiono, nelle loro memorie, come figure mitiche, degli angeli.
Un sogno proibito e pieno di libido
Sin dall’inizio, le sorelle sono presentate, tutte, come il sogno proibito di una tempesta di pulsioni adolescenziali.
Persino la più stramba ed eccentrica, Cecilia, viene indicata comunque come preferibile a qualunque altra ragazza che conoscono.
Una a caso di quelle cinque gli va bene, purché sia una Lisbon:
«Le figlie dei Lisbon avevano rispettivamente: tredici (Cecilia), quattordici (Lux), quindici (Bonnie), sedici (Mary) e diciassette anni (Therese). Statura bassa, glutei profondi nei jeans, guance pienotte che evocavano come un’eco quella morbidezza posteriore. I loro visi, le volte in cui riuscivamo a posarvi lo sguardo, ci colpivano con una sorta di rivelazione impudica, quasi fossimo avvezzi a vedere soltanto donne coperte da un velo. Nessuno sapeva spiegarsi il motivo per cui i Lisbon avessero messo al mondo quelle splendide creature» [nota 1].
Data l’educazione puritana dei genitori, chiunque abbia la fortuna di sedere anche solo come ospite a casa Lisbon viene guardato con una certa invidia.
Figuriamoci cosa si possa pensare di Trip Fontaine, unico ad aver vissuto con una di loro – Lux – qualcosa che somigli a una relazione.
L’incontro fra loro due è descritto con una sensualità rareffata che fa pensare a qualcosa di metafisico:
«Non avrebbe potuto dire che era bella – le labbra carnose, la peluria bionda ai lati delle guance, il naso e le narici traslucide, rosa confetto – furono offuscati da quei due occhi azzurri che lo innalzavano tenendolo sospeso su un’onda marina» [nota 2].
Le sorelle Lisbon, tuttavia, incarnano anche un desiderio puro di libertà che svanisce con l’età adulta. Il sogno di un’adolescenza vissuta al massimo: tanto immacolata da non accettare di corrompersi con tutto ciò che comporta il diventare grandi in termini di compromesso e responsabilità.
I protagonisti ammettono, ogni volta che baciano una donna, di pensare a Lux e al suo modo disinibito di fare l’amore sul tetto: come se quel gesto rappresentasse la quintessenza dell’eternità e dell’onnipotenza adolescenziali; un atto prorompente di vita che, almeno nell’esistenza di chi narra, è svanito con la disillusione e il cinismo di chi cresce.
Il doppio significato delle sorelle Lisbon
Oltre a rappresentare il sogno proibito e idealizzato dell’adolescenza le sorelle sono anche viste come qualcosa di etereo, mistico, indefinibile: un soffio sacro di vita che sfugge alle regole dei costumi sociali borghesi.
I particolari descritti con estrema minuzia dall’autore – le spoglie delle crisope, le foglie da spazzare, lo sciopero dei necrofori, i pettegolezzi della comunità, la nonna ebrea, il vicino ubriacone, l’abbattimento degli alberi e del recinto – esasperano non soltanto il senso di oppressione della comunità, con tutte le sue regole ferree, verso i giovani, ma anche l’estremo distacco delle sorelle Lisbon da quegli stessi valori.
Più di una volta viene sottolineato, in modo molto vago, il legame delle sorelle con la natura, con il satanismo, con la musica celtica, la spiritualità e la sensibilità per le catastrofe naturali.
Significativa la scena in cui le sorelle si stringono intorno all’albero preferito di Cecilia, frapponendosi perché questo non venga abbattuto.
Dopo il loro suicidio, tutto il quartiere è al collasso: il lago viene invaso dalle alghe per un aumento di fosfati nelle acque, molte case vengono abbandonate, altre vendute, la comunità viene vista come sempre più ipocrita e schifosamente materialista.
Quasi che, finché fossero in vita, le sorelle Lisbon mantenessero intatto una specie di incantesimo, capace di assicurare l’equilibrio della comunità sociale.
Le sorelle si suicidano perché troppo pure per questo mondo; i loro animi non avrebbero sopportato il riscaldamento globale, la povertà, i lamantini dilaniati dalle eliche e le balene morenti sulle spiagge.
Queste possibilità, tuttavia, vengono solamente accennate dall’autore: in una specie di vagheggiamento dai contorni mitici che contribuisce a rendere ancor più misteriosa la figura delle ragazze.
Il suicidio non ha spiegazioni
Si potrebbe imputare la causa all’educazione troppo rigida dei genitori, ma sarebbe una spiegazione troppo riduzionista.
La vera causa appare verso la fine del libro: un punto di vista razionale ma che, non meno degli altri, si dimostra incompleto:
«Per la maggior parte della gente (,,,) il suicidio è come una roulette russa. C’è una sola pallottola nel tamburo. Invece la pistola delle sorelle Lisbon era carica. Una pallottola per l’oppressione dell’ambiente familiare. Una per la predisposizione genetica. Una per l’inquietudine legata al contesto storico. Una per l’impreto del momento. Dare un nome alle altre due pallottole è impossibile, ma ciò non significa che non ci fossero» [nota 3].
Ridicole le critiche di alcuni lettori per le quali il romanzo non offrirebbe alcuna spiegazione rispetto a una questione importante.
L’atto di suicidarsi ci è sempre parso talmente agghiacciante che, alla fine, nessuno è riuscito a trovare una formula risolutiva rispetto alle cause; neppure Emile Durkheim.
Note
Jeffrey Eugenides, Le vergini suicide, pp. 10-11, Oscar Mondadori, ristampa 2020.
Jeffrey Eugenides, Le vergini suicide, p. 67, Oscar Mondadori, ristampa 2020.
Jeffrey Eugenides, Le vergini suicide, pp. 205-206, Oscar Mondadori, ristampa 2020.
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