Leggende africane

a cura di Gianluca Turconi

Dalle origini della vita alle ragioni per cui la Zebra ha le strisce, passando per l'Avvoltoio che attende con pazienza sulla "spalla di Dio" e molte altre leggende ricche tanto di magia quanto di mistero, ci avventuriamo nel folclore africano, in compagnia dei suoi spiriti e degli animali che accompagnano gli Uomini in quel magnifico continente chiamato Africa.

L'origine della vita

Il pitone è considerato un animale molto saggio nel folclore africano - Immagine rilasciata sotto licenza  Creative Commons Attribution-Share Alike 3.0 Unported, fonte Wikimedia Commons, utente Tigerpython

Il pitone è considerato un animale molto saggio nel folclore africano.

Quando il mondo era molto giovane, esso era abitato unicamente dagli animali. Un giorno, due coppie di uomini e donne vi giunsero, una proveniente dal cielo, l'altra dalle profondità della terra. A quel tempo, uomini e donne non provavano attrazione reciproca e non sapevano nulla della procreazione e di come moltiplicarsi, perciò quegli esseri umani si limitavano semplicemente ad ammirare i cuccioli degli animali senza comprendere quale ricchezza fossero per loro e per la Natura intera.

Qualche tempo dopo la loro comparsa, il Signore del Cielo inviò sulla Terra un pitone. Per caso, questo nuovo animale, appena arrivato nel mondo, si imbatté nelle due coppie di uomini e donne, e vedendoli senza figli, domandò dove fossero i loro discendenti. Essi risposero che non ne avevano. A seguito di un momento di riflessione, con somma serietà, il pitone disse che avrebbe rivelato loro il segreto della procreazione.

Dopo essersi immerso nel fiume, riemerse e spruzzò acqua sul ventre delle donne, gridando la formula magica "Kuss! Kuss!", parole ancora oggi utilizzate in alcuni rituali di fecondità africani, aggiungendo che una volta rientrati nel villaggio gli uomini avrebbero dovuto giacere con le loro compagne, uno a fianco dell'altra. Così fecero e le donne, toccate dallo Spirito del Fiume, rimasero incinte e poterono procreare, dando origine alla discendenza dell'Umanità.

Riconoscenti per il grande dono ricevuto, anche ai nostri tempi i pitoni non vengono uccisi, altrimenti si scatenerebbe una maledizione sul villaggio, e se essi muoiono di morte naturale, sono sepolti con tutti gli onori.

Come le zebre hanno ottenuto le strisce

In tempi molto antichi, nelle terre dei Boscimani che sono un popolo fiero e amante della Natura, viveva un Babbuino prepotente. Quelle zone erano soggette a lunghi periodi di siccità e quell'arrogante animale si era autonominato "Signore dell'Acqua", prendendo possesso di una delle ultime pozze a cui gli altri animali assetati potevano abbeverarsi. Il Babbuino era solito bivaccare presso un fuoco acceso in passato da un fulmine e ogni volta che qualcuno osava avvicinarsi alla pozza per bere, lo aggrediva con furiose grida e lanci di pietre, rivendicando la proprietà dell'acqua.

Un giorno giunse alla pozza una giovane Zebra. A quei tempi le zebre avevano un manto bianco come la neve. La Zebra non fece nemmeno in tempo ad avvicinarsi all'acqua che il Babbuino scattò dalla sua posizione di vantaggio lanciando sassi contro di lei.

"Vattene da qui!" urlò il Babbuino, furibondo. "L'acqua è mia!"

Schivando con pregevole abilità i proiettili di pietra, la giovane Zebra ribatté: "Taci, brutta scimmia! L'acqua è troppo importante per appartenere a un solo animale!"

E si azzuffarono in maniera selvaggia per determinare se l'acqua che dà la vita nei periodi di siccità fosse bene comune oppure proprietà privata di un singolo individuo. Dopo una lunga lotta, la Zebra colpì il Babbuino proprio sul sedere con un calcio, facendolo volare lontano, in mezzo ad alberi e rocce. Il colpo fu tanto forte che ancora oggi il Babbuino ha il fondoschiena privo di pelo e tiene alzata in verticale la coda per lenire il dolore, mentre grida e lancia oggetti dagli alberi e dalle rocce presso cui è stato confinato.

Spossata dallo scontro, la giovane Zebra barcollò e cadde in mezzo al focolare ormai spento, finendo per sporcarsi di cenere, in lunghe e irregolari strisce nere. La sua discendenza ha conservato quel mantello bicolore e chiunque lo vede può così ricordare a quale animale essere riconoscente per avere accesso liberamente all'acqua comune anche nei periodi di maggiore siccità.

Come l'Ariete sfuggì al Leopardo e allo Sciacallo

Un tempo, il Leopardo e lo Sciacallo erano molto amici e cacciavano spesso insieme.

Di ritorno da una rara caccia solitaria, il Leopardo si imbatté in un animale dalle lunghe corna che non aveva mai visto prima. Tenendosi a distanza per prudenza, gli domandò:

Secondo le leggende africane, lo Sciacallo cacciava insieme al Leopardo, ma la temibile coppia dovette affrontare un imprevisto - Immagine rilasciata sotto licenza  Creative Commons Attribution-Share Alike 3.0 Unported, fonte Wikimedia Commons, utente Yathin sk

Secondo le leggende africane, lo Sciacallo cacciava insieme al Leopardo, ma la temibile coppia dovette affrontare un imprevisto.

"Chi sei?"

"Sono l'Ariete!" rispose con orgoglio quell'animale, puntando in avanti le sue corna in posizione di difesa. "E tu?"

"Io sono il Leopardo" rispose intimorito lui. A un ulteriore movimento delle corna dell'Ariete, il Leopardo decise di non correre rischi e fuggì più veloce che poté.

Tornato a casa, il Leopardo si imbatté nello Sciacallo che, dopo aver udito quella storia, cominciò a sghignazzare col suo inconfondibile verso e a rotolarsi per terra dal divertimento.

"Sei proprio uno stupido" disse poi lo Sciacallo quando riuscì a calmarsi. "Non sai quale succulenta preda ti sei lasciato sfuggire. Adesso ti dirò cosa faremo... Domani andremo a caccia insieme e ci mangeremo quell'Ariete e tutto il suo gregge".

"Ma mi è parso un animale molto pericoloso e feroce" si difese il Leopardo, per nulla convinto dalle parole dall'amico.

"Fidati di me, sarà una caccia facilissima" insistette lo Sciacallo.

E così fu deciso, l'indomani lo Sciacallo e il Leopardo avrebbero cacciato insieme.

La mattina successiva, l'Ariete, sistemato con moglie e figlio sulla cima di una collina, vide arrivare lo Sciacallo che, avendo sfiducia nel coraggio del Leopardo, teneva l'amico legato a sé con una corda, zampa a zampa. Subito l'Ariete corse dalla moglie e gridò:

"Il Leopardo e lo Sciacallo cacciano insieme e sono venuti per noi! Non potremo mai resistere alla loro forza combinata! Ci mangeranno!"

La moglie dell'Ariete non si fece impressionare. "Insieme saranno forti, ma non astuti quanto noi".

Quindi illustrò al marito un piano con cui avere salva la vita.

Nell'eseguirlo, l'Ariete portò il proprio figlio sul crinale che il Leopardo e lo Sciacallo stavano salendo, lo pizzicò con forza e lo fece piangere come se fosse molto affamato, poi disse a voce alta affinché i due assalitori lo potessero udire:

"Calmati, figlio mio. Non vedi che il Leopardo sta portando qui anche lo Sciacallo? Appena saranno più vicini potremo aggredirli e banchettare con le loro carni." Diede un altro pizzicotto al figlio che pianse ancora più forte, come se fosse ansioso di realizzare quanto il padre gli aveva promesso.

Appena udite quelle frasi e il pianto affamato del piccolo, il Leopardo, il quale non era conosciuto per la particolare intelligenza, si spaventò a morte.

"Ci mangeranno in un boccone!" urlò.

"Smettila di avere tanta paura, sciocco!" lo riprese con determinazione lo Sciacallo.

Ma fu tutto inutile. Il Leopardo partì a gran velocità in una corsa disperata tra rocce ed erba alta, trascinando con sé lo Sciacallo legato alla sua zampa, fino a rifugiarsi nella giungla da cui al giorno d'oggi si allontana molto raramente.

Dopo quella vergognosa fuga, Sciacallo e Leopardo smisero di frequentarsi e cacciare insieme, cosicché l'Ariete, il suo gregge e i loro pastori umani poterono avventurarsi nella savana in maggiore sicurezza.

Anansi e il Camaleonte

In un piccolo villaggio della Nigeria viveva un uomo di nome Anansi. Egli era tanto arrogante e borioso che Dio aveva iniziato a pensare di togliergli la propria benedizione, tanto più che si era preso gioco molte volte persino di lui, dichiarando che le fortune avute in vita, le quali lo avevano portato a possedere molti campi di grano, erano frutto solo del suo impegno. Nello stesso villaggio abitava anche un Camaleonte, povero, ma di buon cuore, padrone di un solo campo da cui a stento poteva trarre quanto necessario per sfamarsi.

In un anno particolarmente siccitoso, in cui le piogge avevano cessato di cadere sui campi di Anansi fino a farli diventare polverosi quanto il deserto, sul campo del Camaleonte esse cadevano ancora, permettendo al grano di crescere in abbondanza. Invidioso di un tale favore divino, Anansi decise di comprare il campo del Camaleonte. Prima gli offrì il doppio del suo valore, ma il Camaleonte rifiutò, quindi gli offrì il triplo, tuttavia il Camaleonte rifiutò ancora: era la sua sola proprietà e non voleva separarsene.

Il povero, ma di buon cuore, Camaleonte - Immagine rilasciata sotto licenza  Creative Commons Attribution-Share Alike 4.0 Unported, fonte Wikimedia Commons, utente Shobhan Tudu

Il povero, ma di buon cuore, Camaleonte.

Allora Anansi decise di mettere da parte le buone maniere. Una mattina, di buon'ora, si presentò al campo del Camaleonte e cominciò a mietere il grano come se fosse il suo.

"Come ti permetti?" domandò il Camaleonte, sconvolto dal fatto che Anansi stesse violando la più sacra delle regole del villaggio. "Questo campo è mio e tu non puoi impadronirti del grano che vi cresce!"

"Chi dice che questo campo sia tuo? È vicino ai miei e io sono il più ricco della zona. Certamente appartiene a me anche questo pezzo di terra".

"Non è vero!" si inalberò il Camaleonte, davanti a tanta sfrontatezza. "Abito in questo campo da quando sono nato ed è mio!"

"Allora provalo davanti al capo del villaggio. Egli saprà dire se il campo è tuo oppure mio".

Per questa ragione Anansi e il Camaleonte si presentarono davanti al capo del villaggio e agli anziani radunati in una corte di giustizia.

Quando arrivò l'ora dell'udienza, il capo del villaggio, d'accordo con Anansi, pose una sola domanda al povero Camaleonte: "Dove sono le tue impronte nel campo che rivendichi? Se l'abiti da quando sei nato, dovrebbero essere dappertutto".

Come tutti sanno in Africa, quando i camaleonti si muovono lo fanno molto lentamente e senza lasciare alcuna traccia, perciò il povero Camaleonte non poté fornire quell'unica prova che gli veniva richiesta e seppe di essere stato ingannato tanto da Anansi quanto da colui che amministrava la giustizia. Fu quindi obbligato a cedere il campo a quell'uomo arrogante.

Tuttavia Dio, la cui giustizia è molto diversa da quella degli Uomini, aveva in serbo altro per il buon Camaleonte. Quella stessa notte gli suggerì in sogno il modo in cui avrebbe dovuto agire.

Prima di tutto, il Camaleonte scavò una tana grandissima, ma con un'entrata molto stretta. Dall'esterno la sua abitazione pareva piccola, mentre si snodava per migliaia di passi sotto terra. Successivamente, intrappolò una grande quantità di mosche sotto sottili strisce di canapa, intrecciate alla maniera di un mantello. Le mosche non potevano fuggire e quando i raggi del sole le colpivano tra una striscia e l'altra, esse riflettevano i colori dell'arcobaleno, rendendo il mantello davvero straordinario.

Un giorno, dopo essersi vestito di quel mantello particolare, il Camaleonte ne fece sfoggio camminando avanti e indietro per la via principale del villaggio, fino a quando si imbatté in Anansi. Ammaliato dai colori del mantello, il ricco arrogante volle subito impossessarsene.

"Quanto vuoi per cedermi il tuo mantello?"

"Solo perché sto trattando con te" sottolineò il Camaleonte, riferendosi alla disavventura vissuta davanti al capo del villaggio, in presenza di molti testimoni che avrebbero confermato il nuovo accordo. "Accetterò di separarmene se riempirai di cibo la mia tana".

Anansi, che aveva veduto quanto stretta fosse l'entrata della tana del Camaleonte, accettò subito: "D'accordo! Anzi, la riempirò per due volte!"

Subito il Camaleonte consegnò il bel mantello di mosche e Anansi, ritenendola una mossa astuta, lo donò al capo del villaggio, per conservare il suo favore anche in futuro. Nei giorni seguenti, Anansi iniziò a riempire di cibo la tana del Camaleonte, ma per quanto grano, frutta e carne vi infilasse, c'era sempre altro spazio da riempire. Dopo una settimana, anche il borioso Anansi comprese di essere stato giocato dallo scaltro Camaleonte che conservava la benedizione di Dio. Ci sarebbero voluti anni e molti raccolti per riempire quella tana immensa per due volte.

Lo stesso giorno, il capo del villaggio si pavoneggiava per le strade piene di gente con indosso il mantello di mosche i cui straordinari colori lo rendevano davvero regale. A un movimento brusco di quell'uomo che aveva tradito il senso di giustizia degli Uomini, le strisce di canapa, ormai secche e logore, si ruppero sulla sua schiena, liberando tutte le mosche e lasciandolo completamente nudo alla mercé dell'ilarità degli altri abitanti del villaggio.

Furibondo, il capo corse da Anansi e non solo gli tolse il campo che aveva strappato fraudolentemente al Camaleonte, ma lo riconsegnò a quell'animale di buon cuore e retto.

Anno dopo anno, il campo del Camaleonte ricevette sempre piogge abbondanti e poté produrre gran quantità di grano, grazie al favore di Dio, mentre Anansi dovette continuare a pagare il prezzo del mantello di mosche finché fu anziano, pena il disprezzo definitivo degli abitanti del villaggio.

L'Aquila e l'Avvoltoio

Un giorno, un Avvoltoio atterrò su un ramo rinsecchito di un albero solitario nel mezzo della savana. Con pazienza, attese a lungo, finché una possente Aquila atterrò poco lontano, sullo stesso ramo. Orgogliosa e forte, l'Aquila si rivolse all'Avvoltoio con maniere rozze.

L'Avvoltoio attende con pazienza sulla "spalla di Dio" - Immagine in pubblico dominio, fonte Wikimedia Commons

L'Avvoltoio attende con pazienza sulla "spalla di Dio".

"Cosa aspetti qui, tutto solo, stupido Avvoltoio?" disse l'Aquila.

"Attendo la benevolenza di Dio appollaiato sulla sua spalla" replicò l'Avvoltoio, battendo il becco sul ramo dell'albero, ritorto proprio come fosse una spalla.

"Che sciocca pretesa!" gridò l'Aquila. "Aspettando la benevolenza di Dio, morirai di fame, mentre io potrò sfamarmi con la quaglia che si nasconde laggiù".

L'Aquila mosse il capo davanti a sé per indicare la direzione, l'Avvoltoio aguzzò la vista senza scorgere la quaglia.

"Io non vedo niente" disse l'Avvoltoio, con sincerità.

"Perché non hai la mia vista acuta, né la mia forza né, tanto meno, la mia intelligenza!"

E subito l'Aquila si alzò in volo per attaccare la quaglia sistemata su un albero molto lontano. Dopo aver raggiunto altezze incredibili, l'Aquila si gettò in picchiata per ghermire la quaglia. Il piccolo uccello la vide all'ultimo istante e con un movimento improvviso riuscì a evitare l'attacco. Ormai lanciata a grande velocità, l'Aquila andò a sbattere contro l'albero, spaccandosi la testa e ricadendo a terra morente.

Con tranquilla lentezza, l'Avvoltoio si mise in volo a sua volta, atterrò nelle sue vicinanze e zampettò fino a raggiungerla.

"Cosa vuoi da me, Avvoltoio?" ebbe fiato di dire l'Aquila. "Non vedi che sto morendo?"

"Da te non voglio niente" chiarì subito l'Avvoltoio. "Sono venuto a raccogliere il frutto della benevolenza di Dio che ha premiato la mia pazienza".

"Quale frutto?"

"La tua carne, stupida Aquila. Non sei affatto intelligente, perché non hai compreso chi veramente ti sfama grazie ai suoi doni. Ora mi nutrirò di te e poi tornerò ad attendere sulla spalla di Dio, certo della sua benevolenza".

Allo stesso modo, persino oggi, in Africa gli uomini prepotenti e orgogliosi che non riconoscono i doni di Dio di cui si servono, vengono ammoniti dagli anziani più saggi di non comportarsi come l'Aquila, perché l'Onnipotente potrebbe punirli mettendo sulla loro strada un paziente Avvoltoio.

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