Leggende sudamericane, Cile: il Clan del leone di montagna

di Martín Muñoz Kaise

traduzione italiana a cura di Gianluca Turconi

Il Cile è una terra che offre molti spunti per le leggende sudamericane. Stretto tra l'alta cordigliera delle Ande e l'Oceano Pacifico, è sempre stato al centro di miti, fiabe, credenze e verità, rendendo difficile poter distinguere uno dall'altra, come per quanto si racconta sul Clan del leone di montagna.

La ferocia del leone di montagna, chiamato anche puma o coguaro - Immagine sotto licenza  Creative Commons Attribution 3.0 Unported, fonte Wikimedia Commons, utente Mike Searson

Newen era acquattato nell'erba che in quel periodo era alta e secca, perciò aveva tutto il corpo ricoperto da fango giallo. Il sole brillava alto nel cielo azzurro senza traccia di nubi, una leggera brezza soffiava nella sua direzione aleggiando sull'odore della preda. Coi suoi quindici anni era sul punto di cominciare la preparazione ufficiale, desiderava essere un cacciatore e un guerriero come lo era stato suo padre. Poiché aveva atteso più a lungo del solito, era un anno più vecchio degli altri ragazzi che quell'estate avrebbero cominciato ad allenarsi con i guerrieri e gli uomini. Entro due anni gli avrebbero insegnato il lavoro delle armi, la strategia militare e avrebbe abituato il suo corpo a sopportare la fame e il dolore, mentre gli stregoni avrebbero addestrato la sua memoria e la sua mente per ricordare messaggi uditi una sola volta. Infine, i negepin gli avrebbero insegnato l'arte di parlare in pubblico e i protocolli degli adulti.

Si sarebbe trasformato in uomo, avrebbe potuto sposarsi e cominciare la propria famiglia se lo avesse desiderato o unirsi al Lof della sua prima compagna, in caso contrario. Newen, nel profondo del suo cuore, desiderava fondare un proprio clan, restituire l'onore alla sua famiglia e quindi doveva essere il migliore, il più preparato, essere più veloce e astuto degli altri e ciò si traduceva in più lavoro e meno divertimenti. Per lo stesso motivo, Newen era riservato e taciturno, nel suo sguardo vi era un desiderio irrefrenabile che lo rendeva un essere estraneo alla gente festosa e rilassata che viveva nella valle.

Strinse con forza il cuoio intrecciato e consunto delle boleadoras e lentamente si sollevò. I nandù erano intenti a pascolare tranquilli quando percepirono il movimento circolare delle pietre che tagliavano l'aria con un ronzio e cominciarono a correre disperdendosi nella piana, ma l'arma colpì con precisione l'obiettivo che cadde nel mezzo dell'erba con le zampe legate, scalciando a destra e a sinistra nell'inutile tentativo di liberarsi.

Il giovane lanciò un fischio acuto, tra le foglie gialle passò correndo un Thregua, un cane da caccia con aspetto volpino che abbaiava intensamente. Newen si precipitò dietro il cane nero che correva attraverso la vegetazione secca cercando l'enorme uccello catturato dal suo padrone.

Kalfuñir si fermò subito, c'era qualcosa di sbagliato nell'aria, ma il giovane padrone non fece caso al cane e continuò aprendosi la strada agilmente, sorpassandolo, e si trovò di fronte al ruggito acuto e i denti affilati di una femmina di puma che aveva già azzannato il collo dell'uccello e minacciava di balzare sul ragazzo, rimasto pietrificato davanti a quell'inaspettato incontro.

Uomo e bestia si fissarono negli occhi, ciascun secondo parve durare un'eternità, i due avversari ancora in attesa della reazione del proprio rivale. Newen strinse il suo pugnale di selce, il puma affondò gli artigli retrattili nel corpo del nandù trascinandolo verso di sé, mentre ruggiva nuovamente mostrando la poderosa dentatura. Un brivido corse lungo la schiena del giovane, se il felino lo avesse assalito, la sua unica opzione sarebbe stata affrontarlo, aspettando che il grosso gatto facesse la prima mossa per contrastarlo in qualche maniera. Era intento a cercare nella propria mente le possibili strategie quando i latrati frenetici di Kalfuñir ruppero il silenzio.

Il puma si lanciò sul cane, Newen imbracciò l'arco, prese una freccia dalla faretra e la scoccò con disperazione. Si udì un lamento, poi un altro e infine un terzo, a ogni colpo a segno.

Tuttavia il cane gemeva di dolore con la coda tra le zampe distese sul prato cremisi, il sangue sgorgava a fiotti dal suo collo, era troppo tardi per Kalfuñir. Il fedele compagno di Newen lo guardava agonizzate da terra.

Il giovane aveva la gola riarsa per la tensione, il suo cuore batteva tanto forte che le tempie gli dolevano. Incoccò un'altra freccia e si avvicinò al puma che si era accucciato a fianco del Thregua morente. Il grande felino era disorientato, apriva le fauci e lanciava versi acuti, le sue pupille si contraevano e dilatavano a intermittenza, le tre frecce penetrate nel suo costato drenavano lentamente la sua vita. Si guardò attorno senza capire ciò che stava per capitare, quando il giovane tese l'arco per l'ultima volta.

Il silenzio si prolungò per molto tempo, ma infine Newen riuscì a muoversi nuovamente, il suo corpo tremava ancora, gli costava mantenersi in piedi, tuttavia si obbligò a farlo e cominciò a seppellire il suo compagno di caccia. Poi passo al nandù, gli tagliò la testa e quindi lo fece a pezzi, era un uccello di buone dimensioni, sarebbe servito da pasto per diversi giorni e le sue piume gli avrebbero permesso di fare bella figura alla cerimonia di imposizione del nome. Finito col volatile, si diresse verso la femmina di puma e si apprestava ad estrarre le frecce dal costato dell'animale quando si accorse della presenza di un cucciolo di pochi mesi che tentava di succhiare il latte dalla madre inerme.

Newen imbracciò nuovamente l'arco, incoccò una freccia e lo tese. Il piccolo felino lo guardò negli occhi e si mise a miagolare e a mostrare i minuscoli denti affilati come gli aghi di un telaio. Il giovane fece un sospiro sonoro, mise via le armi e prese il cucciolo tra le braccia.

- Spero mi perdonerai e non mi mangerai, quando sarai cresciuto - disse alla piccola palla di pelo che ronfava sul suo grembo mentre gli accarezzava il mento.

Gli diede un poco di latte conservato in una pelle e lo lasciò accollato tra le sue vesti. Poi terminò di sistemare le sue cose e preparò un fagotto per il viaggio di ritorno al Lof. Fece una sosta per trascorrere la notte, accese un fuoco e cominciò a macellare il puma morto; col suo pugnale di selce ne tagliò il ventre e ne cucinò le carni sul fuoco, scuoiò l'animale e ne conservò la pelliccia. Infine mangiò il cuore del grande felino per ottenere il suo coraggio e la sua astuzia, e quindi offrì le libazioni agli Dei: un po' di liquore di mais, sangue di puma, nandù e farina di Chuño, che si faceva congelando patate cotte per poi macinarle, evitando la fermentazione del tubero; il pane o i biscotti che si producevano con essa duravano molto tempo senza guastarsi, perciò erano un ottimo alimento per viaggiatori e cacciatori.

Pronunciò le parole di ringraziamento a Negenechen e agli spiriti della terra, e versò la farina, il liquore e il sangue sul suolo, proprio come il Machi del suo Lof gli aveva insegnato.

Mentre rifletteva sulle lezioni, guardò il cucciolo di puma, doveva prendere una decisione. Se lo avesse portato in pianura, sarebbe morto rapidamente. Gli aveva ucciso la madre, la cosa più sensata sarebbe stata uccidere anche il piccolo, poiché la morte della femmina implicava anche la sua morte. D'altro canto, si era identificato con quell'animale, entrambi erano orfani ed erano soli al mondo e da quel momento lui era responsabile del suo destino, sia che decidesse di abbandonarlo sia che avesse scelto di sacrificarlo.

Anche Kalfuñir, il suo cane, era morto. Quell'animale gli era stato fedele fino alla morte, senza la distrazione che gli aveva fornito era probabile che l'enorme felino ucciso avrebbe invece banchettato con le sue carni. Il Thregua nero era stato suo compagno dall'infanzia, instancabile nella caccia, un abile segugio e un amico inseparabile. Allora la solitudine lo colpì con tutta l'intensità che la tensione della caccia aveva soppresso. Gli si formò un nodo in gola e mentre fissava la carne cuocersi al fuoco, si rese conto che non aveva nessuno che lo amasse in quel mondo.

Terminò di mangiare la carne arrosto della madre del cucciolo, sotto la volta celeste coperta di stelle rifulgenti, col vento caldo dell'estate che gli accarezza il viso e la luna a metà strada verso il mare immenso. Si addormentò davanti al focolare, senza aver deciso cosa avrebbe fatto di quella creatura.

***

Il giorno seguente arrostì e salò la carne del nandù, mentre affumicò il resto del felino. Poi si diresse verso il Lof dove viveva. Il viaggio durava quattro giorni perché aveva scelto un luogo remoto per non entrare in competizione con gli altri giovani, i quali avrebbero goduto nel fargli scherzi pesanti e rendergli impossibile l'addestramento, per loro non era mai appartenuto al clan.

Newen era un rifugiato, la sua famiglia proveniva da Lafquen, mapu della provincia di Tirúa, i suoi genitori erano morti per mano dei piuchen che, guidati dal Trauco1 stesso, avevano distrutto quel paese. Essendo piccolo, il giovane Newen era giunto a Mapire mapu, il paese della bassa cordigliera, dove era stato assegnato a un Lof della provincia di Queceregua, situato dove il fiume Huichahue riceveva il suo primo affluente dalla cordigliera delle Ande, ai piedi del vulcano Llaima che si alzava per tremila metri di altezza. Lì, si incontrava una piccola valle dominata dal Lonko Lomacura, circondato da due montagne coperte di faggi australi e araucarie. Era un luogo fertile nel quale cresceva senza sforzo la patata, erano abbondanti gli arbusti che producevano bacche commestibili e gli allevamenti di lama, di guanachi e Chiliwekes erano il sostentamento principale, la valle stessa si comportava come un immenso cantiere. Dalle araucarie si traeva il Pehuen, con il quale le donne producevano la farina che era alla base della dieta di alcuni dei clan della bassa cordigliera e della totalità dei clan andini, chiamati Pehuenches a causa della dipendenza che avevano sviluppato da questo frutto.

Newen era stato portato dal Machi Kallfuray, il padre di Lomacura lo aveva ricevuto di buon grado e lo aveva posto a carico di una delle sue mogli più anziane. Cinque anni dopo, il giovane era stato pronto per cominciare il suo addestramento e affrontare la cerimonia del nome.

Quando Newen arrivò con la pelle del puma, tutti lo guardarono con stupore, la sua madre adottiva gradì la carne del nandù e i giovani non si azzardarono a parlargli. Comunque, quando il Machi seppe che portava con sé il cucciolo del felino, le cose cambiarono radicalmente, il rispetto guadagnato con la caccia della feroce preda si convertì rapidamente in sdegno.

Quella stessa notte, la vecchia Rayen lo aiutò a preparare il suo zaino, gli diede provviste e la sua benedizione. Newen aveva deciso di prendersi cura del cucciolo, poiché era colui che l'aveva reso orfano e sapeva cosa significasse abbandonare il piccolo animale al suo destino.

Non volle che nessuno lo separasse dal suo dovere e non si sottomise al giudizio degli anziani dello Yog, perché sapeva che per loro un puma non poteva vivere tra i Mapuche, in quanto prima o poi avrebbe attaccato il bestiame o addirittura i pastori; l'ordine universale esigeva che l'animale tornasse al suo ambiente naturale, ma Newen sapeva che il piccolo felino sarebbe morto, in mancanza del suo aiuto.

Senza meta, separato dalla comunità che lo aveva accolto, Newen si addentrò tra le araucarie e si diresse verso il Llaima. Gli uomini del Lof pensarono che sarebbe rinsavito e avrebbe lasciato l'animale nel bosco, tuttavia il giovane non fu visto tornare. Alcuni dicono che ora un uomo si aggiri con un puma adulto al suo fianco lungo le coste di Tirúa e che in quel golfo si è stabilito un nuovo clan i cui membri si fanno chiamare figli del leone di montagna.

Nota

1 Nella mitologia cilena di Chiloé, il Trauco è una creatura di piccola dimensione simile ai nani o agli gnomi.

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