L'umanità deve porre fine alla guerra, o la guerra porrà fine all'umanità.
John Fitzgerald Kennedy
Quando la luce se ne va loro arrivano e ci portano via i bambini. Non sappiamo come sono fatti. Non sappiamo da dove arrivano. Non sappiamo niente, di loro.
Sta accadendo ovunque. Le persone che incontri per strada sono terrorizzate. Non sanno reagire, parlano di tutto e di niente. Regna il caos nelle loro menti.
Portano via bambine e bambini piccoli, cinque o sei anni al massimo. Tutti cercano di nasconderli nei posti più inusuali e magari pericolosi. Ma loro li trovano e non c'è nulla da fare.
***
Mi chiamano Jack e ho una figlia grande abbastanza da non essere in pericolo. Non so dove sia. Vivo da solo da quando Miriam, sua madre, se ne è andata, stanca del mio carattere di merda, diceva, e del fatto che ero sempre occupato con il mio lavoro del cazzo. Scrivo per un giornale nazionale, realizzo servizi video e pubblico racconti.
Ora il giornale mi manda in giro a far pezzi su quella che è la notizia di tutti i giorni. Io faccio i pezzi migliori e li mettono sempre in prima pagina e in rete.
Vivo in periferia, in campagna, in un piccolo appartamento ricavato dentro a un vecchio cascinale, dove viveva mio padre. Dormo poco e male e scrivo molto. Ho i televisori sempre accesi su RaiNews24, BBC, CNN e i due PC on line collegati alla redazione del mio giornale e ai Social.
Lavoro fino alle tre del mattino, poi cerco di dormire tre o quattro ore, aiutandomi con sonniferi, e alle sette sono davanti al PC per sapere dal giornale dove devo andare o cosa vogliono che scriva o che faccia. Da giorni mi lasciano completamente libero. Scelgo di scrivere pezzi sempre più oscuri e veri su ciò che è accaduto mentre dormivo. Mentre dormivo e facevo incubi.
La prima cosa che voglio sapere stamattina è: quanti bambini hanno portato via stanotte!
Mi faccio un caffè e mi metto al PC.
- C'è nessuno?
Dall'altra parte, nella sede di Milano, Bruno si affaccia al monitor, con una sigaretta in bocca e gli occhi stanchi e bui. Mi dice:
- Hai una faccia da far paura.
- Non è bella neppure la tua. Quanti stanotte...? - chiedo io.
- Qui a Milano trentasette. Stanno arrivando i dati delle altre provincie.
Bruno è uno sui sessanta, magro e alto. Ha tutti i capelli bianchi e lisci e se li tiene raccolti con una lunga coda dietro la nuca. Anche la barba ce l'ha bianca e la lascia crescere così, alla rinfusa.
- E' accaduto qualcosa di anomalo stanotte - mi dice prendendo la sigaretta tra le dita.
Io bevo il caffè e ascolto. Sono intontito dal non sonno. E ho mal di testa.
- Una donna dice che uno di loro le ha parlato, prima di portarle via la bambina.
- E che le ha detto? - chiedo io mentre verso una bustina di Oki nel caffè. La notizia è una bomba.
- E' quello che dovrai scoprire tu. L'hanno portata a Brescia, al Civile, reparto psichiatrici.
Bruno si ferma un attimo, si stropiccia gli occhi con una mano e fuma. Poi sussurra:
- Cazzo le ha parlato! E' il primo caso. Fai tutto quello che vuoi. Hai carta bianca. Mandaci un pezzo per stasera, se riesci a capirci qualcosa.
- Ok - rispondo io. Poi Bruno si allontana dal monitor salutandomi con la mano.
***
Il primo caso. Nessuna agenzia di stampa o canale video ha mai dato una notizia del genere. Il problema è che ci saranno code di giornalisti e militari, medici, curiosi, imbecilli, fanatici e altro davanti ai cancelli del Civile di Brescia. Merda! Dovevano dirmelo prima.
- Bruno ! - urlo.
- Cazzo Bruno! Perché non me l'avete data prima questa notizia. Magari è già troppo tardi per farci un articolo. Ce l'avranno già fregata l'intervista!
Bruno ritorna al monitor, mi fissa con quei suoi occhi scuri da esaurito e dice:
- La polizia di Brescia ci ha informati dieci minuti fa. Il nostro capo conosce bene il capo della polizia e gli ha chiesto di darci tre ore di vantaggio sugli altri media. Quindi vola!
Prendo la videocamera e la metto in uno zaino. Mi vesto: jeans, felpa, giacca di pelle nera. Infilo gli anfibi ed esco. C'è un po' di vento e piove. Prendo la macchina. Batterie sufficienti, mi dice. Le comunico la destinazione. Mi porta in tangenziale e dopo pochi chilometri prende l'autostrada.
Il traffico è inesistente. Il paesaggio è grigio e triste.
Accendo una sigaretta e metto un vecchio CD degli Stadio.
Un giorno ti dirò, che ho rinunciato alla mia felicità per te, e tu riderai, riderai, tu riderai di me...
E' una canzone bella e triste, come lo sono io in questo momento, come lo sono io da molto tempo.
E mi dirai che un padre, non deve piangere mai, non deve piangere mai...
***
Sull'autostrada vola e in dieci minuti arrivo all'uscita Brescia ovest. Esce e prende verso nord fino al Civile. L'ospedale è presidiato da militari, polizia e carabinieri. Un cordone della celere impedisce a chiunque di entrare. Un gruppo di ragazzi dei centri sociali, insieme a madri e padri cercano di scardinare il muro di poliziotti assonnati e stanchi, ma vengono respinti, a ogni tentativo, e senza l'uso dei manganelli. La polizia ha ricevuto ordini precisi: non essere violenti, ma convincenti. Prendo il cellulare e telefono a Bruno.
- Ehi, qui non lasciano passare nessuno. Come faccio a entrare?
- Chiedi del capitano Mombelli. Comanda i celerini. Dovrebbe essere su uno dei furgoni.
- Bruno cazzo è pieno di furgoni qui!
- Cercalo - dice lui.
- Devi dire che sei del giornale. Ti faranno passare.
Esco dall'auto con un'altra sigaretta in bocca. Non piove più ma si è levato un vento più freddo. Prendo la sciarpa nera dallo zaino e me la metto al collo. I furgoni azzurri sono allineati davanti all'ospedale. Vedo donne che piangono e che parlano con i poliziotti, uomini che urlano perché vogliono passare. Chiedo a un poliziotto perché non li facciano entrare, e gli mostro il mio tesserino da giornalista. Lui risponde con una sola parola:
- Ordini.
Mi approssimo al primo mezzo blindato con la tessera del giornale in mano. Un poliziotto mi ferma quasi subito e io gli dico che cerco il capitano Mombelli, che mi sta aspettando, e che è cosa seria e che non posso attendere. Il poliziotto si allontana di un paio di passi da me e poi parla alla radio che ha sulla spalla sinistra. Ha il viso teso ed è molto giovane. Ritorna e mi chiede gentilmente il tesserino. Dice il mio nome alla radio guardandomi dritto negli occhi. Pochi secondi dopo mi dice:
- Mi segua - e mi riconsegna il tesserino da giornalista.
Il capitano Mombelli mi sta aspettando. Sa tutto di me e mi informa che due agenti mi scorteranno dentro l'ospedale. E' un tipo basso, occhi grigi, modi gentili. Mi offre un caffè e dice:
- Stanno arrivando da ogni parte del mondo. E' il primo caso. La donna ha origini marocchine. Aveva solo quella figlia. Povera ...
Emette un sospiro e mi sorride in modo distaccato. Beviamo il caffè in silenzio e poi esco. Due celerini mi stanno aspettando. Saluto il capitano e vado con loro.
Nella mente canto e penso. Nella mente ragiono e organizzo. Nella mente cerco risposte.
Un giorno ti dirò, che ho rinunciato agli occhi suoi per te, e tu non capirai, e mi chiederai «perché»? E mi dirai che un padre, non deve piangere mai, non deve arrendersi mai...
Davanti a una porta ci sono sei medici che parlano tra loro e guardie armate ovunque, lungo tutto il corridoio. Il Primario di Neuropsichiatria mi dice bruscamente che ho mezz'ora di tempo e che devo entrare con uno di loro. Gli rispondo che mi manda il giornale e che con me non entrerà nessuno.
Prendo il telefono e chiamo il mio capo. Gli passo la telefonata. Il professore cerca di ribattere ma il mio capo è molto persuasivo. Il medico mi passa il telefono, mi guarda come se fossi una merda e mi dice, in modo che tutti possano sentire:
- Non ho mai sopportato i raccomandati. Ha mezz'ora, poi se ne deve andare.
Non lo guardo nemmeno. Apro la porta ed entro.
***
Nella stanza le pareti sono azzurre, il soffitto è bianco. Il pavimento è fatto di polimeri esagonali che formano curiose curve. Il letto è vicino alla finestra. Le tende sono chiuse.
Guardo la donna poi il pavimento. Quei giri di esagoni non sono casuali. Seguono la semplicità numerica perfetta della serie di Fibonacci. Conto i numeri della serie finché gli esagoni non si infilano dentro le pareti della stanza. Guardo la donna ora.
Si chiama Nadira, che significa rara, preziosa. E lei lo è. In ogni senso. Suo malgrado.
Ha trentadue anni e le hanno portato via una bimba di due. Una luce tenue proveniente dal soffitto simula un caldo tramonto estivo. Nadira ha gli occhi chiusi. Posiziono la videocamera in fondo al letto e piazzo un disturbatore di frequenze video, per oscurare l'eventuale presenza di altre videocamere. Accendo la videocamera e mi avvicino alla donna, alla sua destra.
- Nadira - dico piano.
Lei non risponde e non si muove, ma apre gli occhi, neri e profondi. E' sedata con Valium in vena, in dosi elevate, ed è legata al letto con cinghie di cuoio. Una forza oscura a volte la invade, una forza che nessuno sa da dove venga. La sta distruggendo, piano.
- Nadira - sussurro.
- Vuoi parlare con me ?
La donna mi trafigge con lo sguardo e dice:
- Cosa vuoi sapere ?
La voce è dura, lontana ma sicura, forte. Gli occhi mi sembrano ancora più neri e lucenti di rabbia. Nadira è bella e mi convinco che i medici sbagliano. La perdita della figlia le ha scatenato dentro qualcosa di enorme, che non sa controllare, ma molto umano. La perdita e la visione di quei mostri, e magari le loro parole.
- Mi hanno rubato la bambina. Mi hanno rubato l'anima.
- Lo so - rispondo io.
- Sono arrivati di notte ...
Improvvisamente Nadira chiude gli occhi e si irrigidisce. Le cinghie con cui è legata stridono, lei inarca la schiena e apre gli occhi. Sono bianchi, rovesciati all'indietro. La bocca è spalancata e un rivolo di bava bianca le esce dal lato sinistro. Rimango quasi indifferente. La osservo contorcersi, emettere gorgoglii. La vedo patire. Vado alla videocamera e zumo sul suo viso, poi allargo in piano sequenza per avere una panoramica sul suo corpo piegato ad arco.
Sta soffrendo molto. Voglio filmare tutto e rimango freddo, distaccato. La luce arancione rende quello spettacolo tremendo quasi bello, cinematografico. Inorridisco per averlo solo pensato. Mi dico che sono pazzo e anaffettivo.
Sono un mostro cazzo, penso girando la testa dall'altra parte.
Pochi passi e sono presso Nadira. Le prendo la mano destra. E' sudata. Appena la tocco i suoi occhi ridiventano neri come la notte e il fremito che la torturava, togliendole il respiro, svanisce.
- Sei cattivo - mi dice con un filo di voce. Mi sento uno stronzo.
- Vuoi solo sapere, fare un servizio giornalistico. Non ti importa nulla di me!
Non le rispondo. Guardo il soffitto e mi sento un verme.
- Voglio sapere cosa ti hanno detto - le sussurro con un filo di voce. Vorrei andar via.
La guardo. E' tutta sudata e ha il viso che riflette un dolore interiore profondo e immenso.
- Sono loro che ti fanno questo ?
- Non lo so - risponde lei.
- Asciugami la fronte ...
Prendo dei fazzoletti di carta e con delicatezza li passo sulla sua fronte, sulle guance, sugli occhi, che chiude piano, sulle labbra, sotto il mento, sul collo. Riapre gli occhi: scintille nere.
- Sono arrivati di notte - dice.
- Prendimi la mano ...
Metto i fazzoletti bagnati su un comodino e le prendo la mano destra. Gliela accarezzo con le dita. Ha la pelle di velluto. E' molto calda.
- Erano in due. Sono comparsi dal nulla, emersi dal pavimento o usciti dalle pareti, ... non so. Ho visto le loro ombre arrivare. Si sono avvicinati al letto. La bambina dormiva accanto a me. Li ho pregati di andare via. Ero terrorizzata, sapevo cosa erano venuti a fare. Mi accorgevo però che non parlavo, non potevo parlare, non me lo permettevano. Li supplicavo solo con il mio pensiero angosciato e urlante. Ero immobile, in una gabbia elettrica, e dentro di me dilagava tutta la mia rabbia, il mio sgomento. Intanto loro prendevano la mia Siahm e io piangevo, inchiodata dentro a un incubo che non passava più. Ma non era un incubo. Stava accadendo a me. Io morivo e loro se ne andavano con il tesoro più grande del mio mondo...
Nadira comincia a piangere. Le asciugo le lacrime e le stringo la mano, le accarezzo il volto e cerco di confortarla. Solo ora capisco il dramma umano di questa donna, il suo infinito dolore.
- Uno di loro prima di scomparire nel pavimento, con la mia piccola, ha parlato.
- Aspetta - le dico. Imposto la registrazione video in modalità sonoro zero. Quello che mi dirà Nadira lo saprò soltanto io.
- Ora puoi parlare, gioia.
Nadira racconta. Io non credo alle sue parole. Nessuno le crederebbe. Troppo folle tutto quello che dice. Troppo insensato per poter essere ... vero.
Quando esco dalla stanza i medici mi fermano e mi chiedono se Nadira ha parlato. Io non li guardo nemmeno e faccio per andarmene. Pochi passi e vengo fermato da quattro poliziotti e dal capitano Mombelli, che prende la telecamera, estrae la memory card e mi dice:
- Non pensava di andarsene così vero? Questa serve a noi - e getta a terra la telecamera, mentre un paio di poliziotti cominciano a calpestarla, mandandola in frantumi.
- Siete degli idioti - urlo io. Poi me ne vado, tra sorrisi e battute sulla mia persona.
Cammino velocemente nei lunghi corridoi, con le guardie che mi osservano, armate con fucili d'assalto ARX 160 Beretta. Quando so che nessuno mi può più vedere, comincio a correre. Non ci metteranno molto a scoprire che la memory card è vuota. La registrazione ce l'ho in tasca e la parte più importante, la rivelazione di Nadira, nella mia testa.
Mentre corro e oltrepasso i blindati della celere penso che non devo andare a casa e nemmeno al giornale. Mi troverebbero subito. Allora rifletto e l'unica soluzione che mi viene in mente è Gigi. Arrivo alla macchina, estraggo la SIM dal cellulare e la butto via, poi accendo una sigaretta e parto. Sorrido e penso a Nadira.
Un giorno mi dirai, che un uomo ti ha lasciata e che non sai più come fare a respirare, a continuare a vivere...
La macchina, intanto, mi porta lontano da lì.
- Sei nei guai!?
- Si, penso di si.
- Puoi stare nell'appartamento di mia madre. Ti han seguito?
- Non credo.
- Cosa ti serve?
- Un PC per fare montaggio video. Devo fare un pezzo, forse il più importante della mia vita.
Gigi mi guarda con i suoi occhi azzurri e dice:
- Tra un'ora avrai tutto fratello.
***
Gigi è l'unico amico che mi è rimasto. Coltiva erba in centro a Milano, sul suo balcone, e fa il medico di base. Vive solo e siamo amici da sempre. L'appartamento di sua madre è il numero nove della palazzina dove sono arrivato correndo come un pazzo con la macchina. Era di sua madre e lo tiene sfitto. Anche li dentro ci coltiva un po' di roba. Un'ora dopo torna con il PC.
Penso alle parole di Nadira. Scarico i video e rivedo nella mia mente la bocca della donna che si muove lenta e mi descrive chi sono loro e perché vengono qui. Rimango immobile a osservare quella scena che si srotola dentro il mio cervello. Riascolto le parole che poi andrò a scrivere.
Mi tremano le mani, mi alzo dalla scrivania della mamma di Gigi e vado in cucina. Apro una bottiglia di Sirah siciliano e prendo un grande bicchiere. Lo riempio a metà e mi siedo al tavolo, di fronte alla porta finestra che da su un piccolo balconcino coltivato a maria. Loro siamo noi.
Accendo una sigaretta e bevo il rosso.
Loro sono esseri umani di un nostro futuro. Non so quanto avanti. Sono in guerra da millenni, sono sterili e vivono secoli. La Terra è stremata e l'odio regna sovrano nei loro cuori. Colonie su Marte sono state distrutte. La Luna è stata spazzata via, insieme ai suoi abitanti.
"Hanno perso l'innocenza. Rapiscono i nostri figli per capire come ritrovarla. I bambini sono tutti innocenti e loro non ne hanno più da tempo immemore. La guerra, per chi ci porta via i bambini, è il male assoluto. E lo sanno, lo sanno bene da tempo. Vogliono imparare l'innocenza dai nostri figli per far finire la guerra che li sta annientando. Con la ragione non ci sono riusciti, l'hanno solo alimentata. Loro sono il futuro di noi stessi! Mi han detto che i bambini ce li riporteranno..."
Come faccio a scrivere queste parole, mi dico. Bevo vino e ne verso altro. Mi alzo e vado in sala. Mi siedo sul divano e tolgo scarpe e calze. Nessuno crederà mai a una storia così. Nessuno.
Accendo la TV. RaiNews24. Guerra tra Cina e Corea. Tokyo si schiera con la Cina e prepara i missili nucleari. Il Califfato Nero fa esplodere tre chilometri della metropolitana di Mosca. Gli aerei russi bombardano il Cairo e l'Arabia Saudita. Gli USA hanno invaso il Messico e l'Unione delle Nazioni del Sud America ha dichiarato guerra agli yankee. L'Europa ha inasprito l'embargo economico-alimentare verso tutti i paesi del nord Africa. Spengo.
Geneticamente, penso, abbiamo la violenza dentro. La nostra storia è intrisa di violenza e guerra. Bevo un sorso di vino e fumo. Vivo in un mondo buio, diventato ancora più buio da quando loro sono arrivati a prenderci i bambini. Ma noi siamo peggio di loro. Loro stanno cercando una soluzione alla guerra. Noi no. Noi stiamo precipitando nella guerra totale. Le nostre piccole colonie di Marte e della Luna si riempiranno di profughi, in breve tempo. Forse questo è l'inizio della loro guerra eterna. Della nostra guerra millenaria.
Chiamo Bruno e gli dico che ho terminato il pezzo ma che non glielo mando. Mi dice che sono sbronzo e di non fare lo stronzo e di mandare velocemente il pezzo perché sennò il capo si incazza. Gli rispondo che non me ne frega un cazzo del capo e del giornale e che mi dispiace per lui. Gli dico anche che il pezzo lo caricherò in rete, su tutti i social network, e lo manderò a tutti i giornali e alle televisioni più importanti del mondo. Bruno urla e capisco solo che sarò licenziato.
Mi metto a ridere e poi gli dico:
- Sai cosa siamo noi?
- Cazzo non fare il fottuto cretino, mandaci quell'intervista!
- Noi siamo loro...
- Loro chi? - urla bruno.
Bevo del vino e spengo il collegamento.
Questa conversazione l'hanno intercettata. Mi rimane poco tempo, penso. Carico il pezzo sulla piattaforma Inter-Planet e in pochi minuti seleziono migliaia di destinazioni. Poi schiaccio invio.
Torno a stendermi sul divano. Non so cosa fare, ma sta accadendo qualcosa. Le pareti e il pavimento vibrano. Non capisco se sia l'effetto del vino o altro. La luce si attenua e tutto assume sfumature di grigio. Onde nere attraversano la stanza. Io stesso sento che sono investito da energia che mi paralizza i muscoli. Da una parete della sala vedo emergere qualcosa, una figura umana che pian piano prende forma. Tutto è liquido e oscillante. L'umanoide si stacca dalla parete come un pezzo di cera fumosa. Il divano sotto di me è scomparso ma io sono steso e paralizzato. Respiro e sono calmo. Sono loro, sono venuti qui, ora, ma perché?
La forma umana assume l'aspetto di una donna. La osservo. Mi si avvicina e mi si pone di fronte. Ondeggia come un miraggio nel deserto e io la riconosco dal sorriso.
E' mia figlia. Non capisco ma è mia figlia.
- Ciao papà - sussurra.
Non riesco a risponderle. Sono immobile, frenato, inchiodato nello spazio e nel tempo.
- Mi hanno mandato da te per dirti che quello che hai fatto è giusto. Tutti devono sapere. Potrebbe cambiare le sorti della futura guerra. E tu vorrai sapere perché sono qui!
Riesco solo a pensare e dico si, perché sei qui. Non ti vedo da due anni e ora sei qui.
- Ti ho sempre voluto bene papà, ma dopo la separazione ho scelto la mia strada e sono andata via. Un anno fa ho avuto una bambina, non so chi è il padre ma tu sei suo nonno e un giorno la conoscerai. Loro me l'hanno portata via da due settimane e qualche ora fa me l'hanno fatta vedere e mi hanno mandato qui. Tua nipote Sara sta bene papà. Non so come fanno ma stanno cercando di salvare la razza umana, come ti ha detto Nadira. Tutti i bambini che ho visto sono felici e vengono trattati come diamanti, angeli. Sono la cosa più preziosa che hanno e ce li ridaranno. Ora devo andare. Mi stanno chiamando. Vivo a Parigi papà. Mi hanno presa, ma solo per pochi minuti. Ho avuto paura all'inizio ma loro mi hanno spiegato tutto e sono ritornata serena. Ti stanno cercando Jack, la polizia, i servizi segreti, i giornali. Tutti. Vai via di qua. Prendi il treno e vieni da me. Quartiere latino. Rue Blomet numero undici. Un bacio Jack. Ti voglio bene. Arriva presto!
***
Quando il treno parte osservo la stazione Centrale di Milano pullulante di vita. Centri commerciali luccicanti, treni monorotaia che entrano ed escono da livelli diversi, silenziosi. Sembra tutto normale, la metropoli cerca di non pensare alle due bombe nucleari sganciate dalla Corea due giorni fa. Anch'io cerco di non pensarci. Penso a mia figlia, a quando la rivedrò, tra poche ore spero. Penso a Sara e mi dico che non dovrebbe tornare in questo tratto di storia del mondo. Non dovrebbero farli tornare i bambini. Stiamo precipitando in una guerra che li ucciderà. Non so perché ce li mandano indietro se poi tutto crolla. Non lo so e mi dispero.
***
- Mi piace il tuo appartamento.
- Anche a me - dice Agnese.
Da due giorni sto con lei. Mi sento a casa. Lei sa del mio turbamento per il ritorno dei bambini. Me lo legge negli occhi. Accende la TV.
- Vedi! Parlano solo del tuo servizio. Su tutti i canali. Ed è iniziato un dibattito politico a livello mondiale sul ruolo della guerra come strumento malato per la risoluzione dei problemi tra gli stati. Tu hai aperto una porta sulla speranza papà. Lo hanno sempre detto che con la guerra non si va da nessuna parte, lo hanno sempre scritto molti intellettuali e gente comune, o religiosi. Ma con la tua azione hai fatto qualcosa che ha acceso una scintilla nuova.
Mi da un bacio e mi sorride, poi va a cucinare.
Per un attimo mi sento felice e penso alla piccola Sara.
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