Scrivere fantasy in un mondo in guerra. Fuga o impegno?

di Claudio Nebbia

Testo dell'intervento dello scrittore Claudio Nebbia alla tavola rotonda sul tema "Scrivere fantasy in un mondo in guerra. Fuga o impegno?" tenuta al Salone del Libro di Torino nel maggio 2008.

Penso che molti scrittori e artisti si siano posti il problema di quale debba essere il rapporto tra la loro arte e la sofferenza umana.

L'arte pone l'artista in uno stato di grazia che può anche farlo sentire colpevole di fronte alle sofferenze altrui e spingerlo a chiedersi se ciò sia giusto o meno, se trovare gioia e conforto nella creazione artistica non si possa configurare come colpevole egoismo.

Non penso esista una risposta valida in tutti i casi, ma piuttosto che essa vada trovata ogni volta chiedendosi: "Che cosa posso fare io"?

Se i cristiani di Timor Est vengono massacrati per la loro fede, potrò scrivere una lettera al governo di quel paese, partecipare a una marcia di protesta o comporre una canzone. Se invece il mio migliore amico rischia di perdere il posto sarà molto più utile telefonare a parenti, amici e conoscenti che comporre un sonetto in metrica ipponattea o una sonata per triangolo e ottavino.

Ma, una volta assolti questi obblighi o, se vogliamo essere cinici, una volta tacitata la nostra coscienza con queste azioni, che cosa fare? "Prendere il lutto" in senso artistico, astenendosi da qualsiasi attività fino a quando la guerra o l'emergenza non sia cessata, oppure continuare nella creazione artistica, a costo di sembrare insensibili?

La prima risoluzione mi sembra piuttosto irreale.

Il mondo, purtroppo, è stato tormentato dalle guerre da quando esiste l'uomo, la guerra è uno stato della condizione umana al pari della pace, per quanto quest'ultima sia di gran lunga preferibile. Ogni tempo ha visto tribù, popoli e nazioni darsi battaglia per poi sedere a un tavolo attorno al quale negoziare la pace, spesso a condizioni peggiori di quelle che avrebbero potuto ottenere prima del conflitto.

Se quindi l'artista in generale, e lo scrittore di fantasy in particolare, dovesse attendere un periodo di pace universale, temo che non scriverebbe mai. Ho parlato di pace universale perché non posso nemmeno immaginare quello che chiamerei lo "sdegno massmediatico", ossia il moto d'animo che mi fa ardere di sacro furore per una guerra vicina e ampiamente coperta dai media, mentre mi lascia totalmente indifferente di fronte ai massacri e alle guerre tribali nel Darfur o nel Ruanda.

L'opera d'arte esercita sull'animo umano un effetto benefico. Leggendo un buon libro, osservando un bel quadro, ascoltando una sinfonia è come se il nostro animo entrasse in contatto con principi universali e si elevasse. Per non parlare poi dell'effetto catartico del teatro già descritto da Aristotele, secondo il quale lo spettatore della tragedia, partecipando alle emozioni e ai travagli del protagonista, ne esce purificato.

Se dunque crediamo che la nostra creazione artistica possa essere di qualche utilità e far provare ad altri il piacere che ci ha dato, se riteniamo di aver ricevuto un talento o un carisma di questo tipo, non nascondiamolo ma esercitiamolo. E anche se pensiamo che nessuno mai leggerà il nostro libro, ammirerà il nostro quadro o ascolterà la nostra musica, facciamolo per noi stessi: saremo più sereni e la serenità, si sa, è contagiosa.

Mi piace a questo punto citare come esempio del potere dell'arte sull'artista l'orchestrina del Titanic.

Ricordo che anni fa una certa stampa si faceva beffe di quei musicisti, descrivendoli come irresponsabili e sconsiderati, completamente avulsi dalla realtà che li circondava, talmente chiusi fino all'ultimo nel loro piccolo mondo da ignorare a tutti i costi la catastrofe che, è il caso di dirlo, sta per sommergerli.

Per contro ho trovato particolarmente toccante la ricostruzione che, basandosi su fonti storiche, ne fa il regista James Cameron nel film.

Quei musicisti sono ben consci che di lì a poco dovranno morire, ma trovano nell'arte la forza per morire con dignità. Anziché contendersi come lupi i pochi salvagenti o i posti sulle scialuppe, in attesa di essere inghiottiti dal gelido abbraccio che spegnerà le loro vite, suonano un inno sacro (Spero in te, Signor...) e quindi si salutano, complimentandosi per l'esecuzione e stringendosi la mano l'uno con l'altro, come se dovessero rivedersi la sera successiva.

Ma, per tornare al tema di questa serata, penso sia interessante ripercorrere la vita e le scelte di quello che io reputo il più grande scrittore di fantasy, J.R.R. Tolkien.

Nato in Sudafrica nel 1892 e rimasto ben presto orfano di entrambi i genitori, mentre frequentava il Liceo

a Birmingham, fondò la Tea Club and Barrovian Society (TCBS) insieme a Robert Gilson, Cristopher Wiseman e Geoffrey Smith, che divennero suoi stretti amici.

Nel 1916, all'età di 24 anni, dopo essersi laureato e sposato si arruolò nel Lancashire Regiment, lo stesso del suo amico Geoffrey Smith, ma finirono in due battaglioni diversi.

Combatté nella battaglia della Somme, luglio 1916, un attacco insensato a posizioni tedesche fortissime che, solo nel primo giorno costò ai Britannici 21.000 morti, tra cui Robert Gilson, e 25.000 feriti.

Tolkien si ammalò di febbre delle trincee e dovette essere rimpatriato in Inghilterra dove, durante la convalescenza in un ospedale militare, ebbe notizia della morte dell'amico Geoffrey Smith, evento che segnò la fine della TCBS.

Tolkine scrisse "Lo Hobbit" mentre infuriava la guerra civile spagnola e "Il Signore degli Anelli" mentre era in corso la Seconda Guerra Mondiale.

Gli fu rimproverato di scrivere opere di evasione, staccate dalla realtà ed egli, nel suo saggio "Albero e Foglia", replicò che, se di evasione si trattava, era la "santa evasione del prigioniero dalla sua cella, non la diserzione del guerriero", rivendicando poi il diritto dell'artista di sottrarsi all'essere ridotto a fenomeno sociale. Le realtà presenti erano transitorie, continuava, l'artista ha il diritto di parlare di cose permanenti, non di lampadine elettriche ma di fulmini.

E così scrisse di orchi, elfi, draghi e stregoni, creando un suo indimenticabile mondo in cui il lettore si aggira meravigliato.

Ma il lettore attento non troverà nelle sue opere soltanto esseri fantastici e imprese leggendarie, ma anche profonde lezioni morali, valide in ogni tempo.

Innanzitutto il profondo valore dell'amicizia nel superare le difficoltà della vita. Solo chi segue le vie del Bene può vivere l'amicizia, che è soprattutto dono di sé, mentre vediamo gli sgherri di Sauron litigare e uccidersi tra di loro per dividersi il bottino,

I piccoli e gli umili, se rifiutano le logiche del potere (l'Anello), possono cambiare il corso della Storia, un messaggio che ci ricorda il profeta Elia che unge come re d'Israele il fanciullo Davide, il più giovane dei figli di Jesse, oppure la frase del Vangelo "la pietra scartata dai costruttori è diventata testata angolare".

Il Male segue le sue logiche, incomprensibili a chi pratica il Bene, e la lotta perenne tra queste due entità non può accettare compromessi ma terminare solo con la fine dell'uno o dell'altro. Lo stregone Saruman, che diventa complice del Male credendo di poterlo controllare, ne verrà corrotto e ne uscirà sconfitto.

Cambiare il mondo si può, basta incominciare da noi stessi. Di fronte alle liti che dividono il consiglio di Elrond, Frodo si fa avanti e prende su di sé la terribile impresa di distruggere l'Anello gettandolo nella lava bollente di Monte Fato.

Mi sembra quindi di poter concludere che l'accusa rivolta a Tolkien di scrivere letteratura d'evasione sia profondamente ingiusta e che egli rivendichi per l'artista il diritto di scegliere le battaglie da combattere con l'aiuto della sua arte.

Egli ignora le singole guerre e scende in campo in quella che potremmo chiamare la Madre di Tutte le Guerre, quella che ognuno di noi deve combattere ogni giorno contro il Male che è per prima cosa in lui e poi attorno a lui, le ingiustizie e i soprusi che vediamo ogni giorno: chi inquina, chi sfrutta il lavoro degli altri con salari da fame, chi manda i bimbi a combattere, chi truffa i risparmiatori, chi tiene le donne in schiavitù, chi usa la sua posizione sociale per opprimere i deboli o garantirsi vantaggi illeciti.

Che Tolkien sia riuscito a trasmettere questi concetti non attraverso una tediosa opera morale ma con romanzi divertenti e avvincenti che hanno affascinato lettori di ogni età, sesso e religione ne dimostra ancora una volta, se mai ce ne fosse bisogno, la genialità.

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