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Occhi spalancati nell'oscurità.
Il cuore accelera e coordina il suo battito col ticchettio della lancetta dei secondi sull'orologio da parete a fronte del letto. Conto: uno, due, tre... Salto uno spostamento della lancetta... E' l'innesco.
Una parola. Poi un'altra, collegata alla prima e vividamente perfetta nella congiunzione. E l'intera frase, un'epifania chiara nella mente. E' forte, è poderosa, pretende attenzione. Non posso ignorarla.
Scosto le coperte afflosciate sul mio corpo e mi tiro a sedere. Sono stanco. E' una stanchezza naturale che dovrebbe consigliare il sonno. Invece mi alzo e cammino a tentoni, schivando lo spigolo del letto e pile di libri abbandonati da mesi accanto alla scrivania.
La devo catturare nella sua fissità, non può sfuggirmi, sarebbe un dolore insopportabile. Accendo la lampada da tavolo e la sua luce mi ferisce gli occhi, affaticati dai giorni persi alla ricerca di quella frase: sui testi d'autore, nelle conversazioni con gli amici, sui volti dei passanti per strada.
- Mai che ci sia una penna quando serve! - Ma carta sì! Montagne di carta, dai ritagli di giornale catalogati per data e argomento fino ai miei appunti buttati giù su Kleenex trasformati in improvvisati taccuini, passando per i fogli dattiloscritti contenenti il frutto del mio lavoro.
Mi accontento di una matita dalla punta smussata. E' davvero corta questa punta, non più di mezzo millimetro prima del legno. La posso usare per scrivere? Eseguo il collaudo su un foglio di giornale: farà il suo dovere. Il tempo passa svelto, sono già trascorsi almeno cinque minuti da quando mi sono alzato, e lei, la frase, si affievolisce, mi scappa via tra le dita mentre provo a trattenerla. Non devo indugiare.
Mi approprio di un fazzoletto di carta e mi accingo a imprigionarla, la maledetta. Si scrive da sola, una serie di punti, linee e tratti obliqui. Non ho mai avuto una bella calligrafia, corsivo indecente e stampatello infantile, ma non importa. Le lettere si susseguono, si completano nel significato, con la grafite a rappresentare il mio pensiero. Sono prossimo alla fine, quell'ultimo vocabolo... è... è... perduto!
Lancio la matita lontano da me, a cozzare impotente contro la parete.
- Sono uno scrittore... - mi dico, nel silenzio della stanza, per rinfrancare la mia autostima. Non è sufficiente. Il mio respiro si abbrevia, correndo incontro all'iperventilazione, anticamera di una crisi d'ansia. L'orologio segna l'una di notte, atterrendomi. Sono ancora sveglio a pensare alla storia che voglio raccontare.
Il mio polso trema, trasmettendo l'indecisione al palmo della mano e su, alle dita, che stringo a pugno, allento e ristringo, in un esercizio privo di finalità. La stanza vortica intorno a me, confondendo ombre e riflessi. E' un capogiro infido che mi porta a chiudere gli occhi.
Devo guardarmi dalla perdita di coscienza.
Mi vesto ed esco.
Fuori, il freddo mi dà il benvenuto con mille aghi gelidi sulla pelle. Amo il freddo, mi è amico, non mi soffoca e non mi opprime, rischiara le idee. Scelgo il punto dove accucciarmi per ritrovare la parola che ho smarrito. E' una traversina di una linea tranviaria interurbana, forse l'ultima esistente in Lombardia. Le corse notturne sono sospese, sostituite da autobus privi di charme, i quali si ostinano a rispettare i comuni semafori. I tram sono differenti. Seguono la loro strada e si fermano ai loro semafori, proprio come me.
Mi sposto per stare comodo. Il lampione a cui mi sorreggo è spento. Dovrebbero ripararlo e la manutenzione comunale provvederà, un giorno. Per ora mi godo il buio.
Alcune voci, deformate dall'alcool, mi traggono dalla depressione. Le collego a due tizi seduti sul bordo del marciapiede a cinquanta metri da me, accerchiati da un cimitero di bottiglie vuote. Hanno le braccia appoggiate alle ginocchia e ciascuno tiene per il collo una Beck's. Il primo è smilzo, con capelli arruffati e lunghi su vestiti dalle sfumature vive, un hippy nato con qualche decennio di ritardo. Il secondo è basso, più di quanto io possa immaginare un uomo basso. I trent'anni d'età, che entrambi portano sulle spalle, hanno minato il loro fisico nella stessa misura della birra che hanno bevuto in eccesso.
Non mi vedono al riparo del mio nascondiglio oscuro.
- Ti ricordi nell'ottantasette? - attacca lo Smilzo. - Eravamo in gita a Parigi con la scuola. In visita alla torre Eiffel, scendiamo alla prima fermata dell'ascensore e... A che altezza eravamo?
- Trenta metri al massimo - gli suggerisce il Basso.
- Sì! Trenta metri - conferma il compare. - Era aprile, con un vento forte che ti sballottava la testa come un sacco da pugilato. Alessandra soffriva di vertigini, ma aveva voluto fare la coraggiosa. "Salgo anch'io", aveva detto. Due passi sulla piattaforma di ferro e si mette a piangere disperata!
Lo Smilzo si prende una pausa per bere un sorso della sua Beck's, quindi arricchisce il racconto con un dettaglio: - Abbiamo dovuto tenerla sottobraccio e portarla giù di peso perché non si reggeva in piedi. Arrivati sul piazzale della torre, si è inginocchiata e ha baciato la terra, in mezzo ai turisti che la additavano curiosi.
- E noi intorno a cantarle Papa, don't preach di Madonna per farla arrossire. Eravamo dei buffoni... - completa il Basso.
Ridono in coppia, da vecchi amici. L'ilarità si esaurisce con l'ultimo goccio di birra.
- Sai che ne è stato di Alessandra? - chiede lo Smilzo.
- Si è sposata con un ragioniere e ha un figlio sul serio. Lavora da commessa nel negozio di intimo femminile che c'è in Via Verdi, davanti alla sede dell'ASL.
Lo Smilzo annuisce, triste. Si alza tenendo stretta la sua bottiglia, orfana del contenuto. - Devo andare a casa o domani mi addormento in officina e il capo mi spacca il... - Si interrompe quando un'auto di passaggio mi illumina con i fari. Origliare è imbarazzante, ma è niente in confronto all'essere scoperti a farlo.
- Tu! Che cazzo hai da guardare? Ti rompo! - mi minaccia il Basso, ubriaco, puntandomi pericolosamente l'indice contro.
Con loro non terminerò la mia ricerca, perciò preferisco alzare i tacchi e incamminarmi in senso opposto. Un "Bastardo!" mi piove addosso insieme a una bottiglia che mi sfiora la testa, infrangendosi sulle rotaie. Hanno le loro ragioni per inveire contro la vita e contro di me. Non starò a discuterne con degli sconosciuti. Me ne vado a testa bassa consapevole di essere divenuto un ladro di ricordi.
Le rotaie che prima mi avevano attratto, adesso mi insinuano dentro una nausea mortale. Sono così parallele, sempre uguali a se stesse, mai un'intersezione o un imprevisto che serva a ravvivarne il percorso. Le seguo lo stesso per un'altra decina di minuti, perché è difficile disfarsi delle vecchie abitudini, come di scarpe bucate che conservano integra la loro comodità.
Alla fine mi decido. Scavalco la recinzione che delimita la strada e mi inoltro in un campo brullo, dall'erba ghiacciata e tagliente. La parola mancante può essere nascosta lì, tra gli steli di fiori non nati, nel sasso che ho appena calciato col piede. Mi fermo e lo osservo, coinvolto dalle sue venature. E' bianco, con sottili filamenti scuri ramificati sulla superficie. Possiede della poesia, ma non è ciò che mi serve. Il mio non è animo da poeta.
Proseguo ad avanzare nel campo e mi imbatto in una pista ciclabile. Corre in orizzontale, ricoperta di asfalto nero diviso in corsie da una linea tratteggiata bianca, sommersa dai rampicanti che ne reclamano la proprietà. E' una cesura incongruente nel paesaggio, ma esiste una ragione se l'ho incontrata. Tutto al mondo ha una ragione, anche la morte.
Destra o sinistra?
Le scelte non sono mai state il mio forte e lascio la decisione al caso. Un'irridente luna piena è alta sulla mia destra. Ecco la direzione. Dal cielo, la mia rotonda accompagnatrice mi fissa pacifica, sfidandomi a disinteressarmi di lei. In altre occasioni mi avrebbe ispirato un paragrafo, se non un capitolo intero.
- Smettila di prenderti gioco di me! - le urlo, mentre la frustata d'aria di un TIR in corsa mi spinge a barcollare sulla pista. Sopra, in cima al lastricato che decora la parete di una salita aspra, c'è la statale che porta in Valtellina, passando per Lecco. La visione mi ributta nel mio passato di ragazzo, in un tempo in cui tra il centro abitato e la statale v'era la zona di caccia per drogati, pedofili e prostitute.
Queste ultime sono dove sono sempre state. Aspettano appoggiate al guardrail, mai stanche, mai malate, mai consce del loro ruolo. Sono diverse da quando, a sedici anni, andavo a stuzzicarle pur non avendo un soldo in tasca. O forse sono cresciuto io e ho imparato che le donne non perdono la dignità, in nessun caso.
La scopro passando lo sguardo in un tour geografico: albanesi, rumene, ceche, moldave... E' alta, per essere una bambina. Stringe con vigore la borsetta da bambola che le hanno imposto e parla tranquilla a una compagna nell'unica lingua, l'italiano, che le permette di comunicare tra una babele di dialetti slavi.
- In Crimea, la primavera è meno fredda... - dice. Sono lontano, tuttavia non posso ignorare il tremore delle sue gambe nude, fasciate da una minigonna aderente, inutile per scacciare i brividi.
- Cammina e ti passerà - consiglia la compagna. E' più anziana. Anziana? Avrà vent'anni.
- Quando finiamo? - domanda la Piccola.
- Quando ci vengono a prendere. Ancora un'ora.
- E' tardi, non passa nessuno.
- C'è sempre qualcuno che passa. - Un'auto rallenta e il conducente cambia il destino, fermandosi da loro.
E' il turno del cliente.
Se ne rimane rintanato al sicuro nella sua Audi nuova, protetto dall'anonimato. Non ci sono preliminari, né tergiversazioni, la domanda è schietta: - Quanto vuoi?
La Piccola si sistema i capelli biondi che le sono caduti sul viso nel procedere verso l'auto e tentenna. Ha visto che il sedile del passeggero è occupato da una seconda persona.
- Vesna... - si rivolge all'amica chiamandola per nome, in cerca di indicazioni.
Lei ha già preso nota della targa. - Vai.
- Sono duecento - mercanteggia la Piccola.
- Sta bene, monta dietro - accetta il cliente.
- Aspetta, si fa solo con questi però... - immerge la mano nella sua borsettina da Barbie e ne trae una coppia di preservativi dall'involucro in plastica rossa.
- OK, dammi qua. - Il cliente protende la mano su cui porta la fede, afferrandoli. Ne consegna uno al passeggero che si agita in operazioni da equilibrista. Lo sta infilando.
Cristo Santo! Che Italia è questa?, penso.
Incrocio di sfuggita gli occhi della Piccola mentre sale sull'auto. Sono verdi e duri, temprati dalla sofferenza più dei miei. Possono raccontarmi cento storie: delle estati passate con i genitori sulle spiagge dell'istmo di Kerc; dei clienti che vogliono sedare il proprio tormento del male di vivere unendolo alle solitudini infinite di bambine; di un presente che è identico al passato e al futuro. Sono storie che qualcun altro scriverà, per cui altri perderanno il sonno, non io.
Il desiderio di aiutarla non sfuma, anche se non è da lei che avrò la parola perduta. Esamino la salita per rinvenire un appiglio, dandomi un secondo in cui mi immagino un salvataggio, una riconoscenza che si muta in amore ricambiato, la giusta felicità. E' simile a ciò che scrivo, traslato nella vita reale con maggiore fantasia.
Sento le mie guance bagnate da lacrime d'impotenza, perché non salirò quel pendio, non ci sarà la liberazione e la felicità, sua e mia, dovrà attendere. Sono un osservatore senza coraggio.
Volto le spalle a una realtà che mi impaurisce e che non ho la forza di cambiare. Vago sulla pista seguendo la linea tratteggiata; colore, vuoto, colore, vuoto. E' la rappresentazione di me stesso: scrivere, vivere, scrivere, vivere. La volontà di completare la frase lasciata in sospeso nella mia camera riprende il sopravvento. Mi martella il cervello e me ne compiaccio.
Sono passate le quattro. Cammino al buio, in periferia, chiunque potrebbe rapinarmi, ferirmi, uccidermi e non ne ho paura. E' la consapevolezza di chi sono che mi rende avventato. E' avventatezza, certo, ricoperta da una spolverata di piena coscienza.
- Sono uno scrittore! - E' un'affermazione. Punto.
La completezza della coscienza non è tale. Mi sfugge quella dannata parola...
Il sottopassaggio mi rinchiude all'improvviso. Non mi sono reso conto d'esservi entrato, è come se i muri di cemento e le travi del soffitto fossero qui da sempre. In fondo al tunnel non c'è alcuna luce, nessun Dio disposto ad accogliermi, solo una penombra marcata. Il mio girovagare mi ha svuotato d'energia, tanto che persino la malta grezza usata per tener su alcuni tramezzi di mattoni diventa attraente per poggiarci la schiena. Il pavimento è ruvido attraverso i jeans che indosso, ma mi siedo. Sono sfinito, è ora di arrendersi, non avrò il mio premio dopo ciò che ho passato. I miei occhi si abituano alle nuove condizioni e il mondo in cui vivevo non esiste più, annientato da un secondo, concreto, vero universo. Alcuni fagotti sono disposti a caso dall'altra parte della pista. Sono sacchi di plastica per l'immondizia, neri e impenetrabili come prima che le leggi sul riciclaggio ne imponessero la trasparenza.
Ma l'immondizia non russa.
Qualcosa nell'ombra si muove, anticipando il fetore che mi penetra nelle narici e mi arriva all'encefalo rapido quanto un ictus. Le essenze si mischiano, sebbene siano distinguibili: il tanfo degli escrementi umani rappresi, la mielosa fragranza di un vino marsalato, le opprimenti zaffate di tabacco scadente e molte che ancora non distinguo, perché sono nuovo di quel mondo. Il movimento aumenta e un sacco di plastica si anima, esprimendosi a voce: - Parlami!
E' un'allucinazione, credo. Mi sfrego le palpebre e mi concentro.
La voce non desiste: - Non rimanere muto con me. Parlami!
L'allucinazione, che prima era un sacco di plastica, è in effetti un essere vivente. Un barbone, un senza tetto, un clochard, un miserabile, un mendicante, un vagabondo. Quante parole per nominare un uomo! Le ripeto singolarmente, adagio, lasciando che la mia bocca ne mastichi le sillabe. La magia del linguaggio le impregna. Mi illudo di aver terminato la mia ricerca, ma la falsa speranza è fugace, l'incantesimo spezzato.
L'uomo emerge dal suo giaciglio di plastica.
- Perché non mi rispondi? - mi tenta. Le sue mani sono sporche.
- Non ho nulla da dire.
- Ogni uomo ha qualcosa da dire. - La sua parlata è insignificante.
- Pure tu? - gli replico.
- Io non sono un uomo. - I suoi occhi sono vuoti.
- Allora cosa sei?
- Uno scrittore.
- Anch'io - confesso.
Lui sospira, rimugina silenzioso su un pensiero e poi mi prende per una manica.
- Vieni. - Non voglio seguirlo, mi intimorisce. Nasconde un segreto. - E' per il tuo bene - mi convince.
Rovista nel suo sacco, la sua casa, e rinviene il tesoro che custodisce gelosamente; è disposto a uccidere per salvaguardarlo. Prende il primo pezzo, lo accarezza sulla superficie lucida e lo deposita in terra ai miei piedi. Di seguito giungono gli altri, altrettanto preziosi. Sono le parti frontali di confezioni di cartone per alimenti.
- Lo vedi?
Fisso i cartoni. - No.
- Lo devi vedere! Sei uno scrittore.
Riprovo. - C'è...
Ho un blocco mentale e rinuncio.
- E' l'ordine, ragazzo! Fulgido nella sua semplicità.
I resti delle scatole non hanno ordine: grandi, piccoli, quadrati, rettangolari, spessi, fini. Si succedono trascurando la logica. E' la realizzazione del caos. Glielo devo spiegare.
- Non c'è ordine. Al contrario, io li metterei in questa sequenza. - Mi chino a spostarli. - Forma con forma, marca con marca, tinta con tinta. Hanno un senso.
- E' tutto sbagliato, tutto da rifare! - Li ricolloca con maniacale pedanteria, non sbagliando una posizione. - Lascia perdere il senso... E' l'incastro dei pezzi che è importante. Ciascun tassello al suo posto, ogni esperienza nel giusto ordine e le parole verranno. E' il talento! Il significato della rappresentazione che descriviamo non spetta a noi.
Mi illumino. Non mi mostra un ordine qualsiasi, ma il suo ordine personale in un cosmo fragile di cui posso solo intravedere l'annuncio attraverso di lui. Si è imbattuto in esso troppo tardi per esprimerlo scrivendo e ha ceduto sotto il peso di quella mancanza. Fluiamo istantaneamente nella medesima pericolosa follia. Quest'uomo non ha un nome e neppure glielo darò. Mi somiglia, avrei potuto essere al suo posto. La constatazione mi turba. Ciononostante mi ha regalato la parola che mi mancava, salvandomi.
E' ossessione. L'ossessione di scrivere per trovare il senso assoluto di ciò che mi circonda. Appresa la parola, posso dominare l'alienazione e rimpossessarmi del mondo reale.
Quando rinvengo dallo stato d'incoscienza indotto dalla crisi d'ansia, è ormai l'alba. Sono nella mia stanza, da cui non mi sono mai allontanato. La stranezza dell'esperienza mi lascia una sensazione di incontro mistico che non svanisce con l'avanzare del giorno. Dopo il mio viaggio di andata e ritorno nella pazzia, seduto a una scrivania finalmente liberata dalla confusione, sto componendo queste ultime righe e mi domando se il ladro di ricordi, l'osservatore senza coraggio e il folle cercatore d'ordine nel caos del creato meritassero una persona che narrasse le loro vicende. La risposta che si fa largo prepotente è: sì. Anche gli antieroi, nella fantasia e nella realtà, hanno una storia da raccontare.
Note dell'autore: Una storia da raccontare
"Una storia da raccontare", originariamente pensato per una raccolta sulla vita lavorativa a cura dell'associazione A3, appartiene alla categoria dei racconti che si scrivono da soli. Sono testi che stanno lì, da qualche parte nella testa dell'autore, e non se ne vogliono andare, insistenti e opprimenti con la loro presenza.
Se si decide di scriverli, ti prendono, ti rigirano come un calzino e ti fanno dire cose per le quali ci sarà sicuramente una stagione in cui se ne rinnegherà la paternità e un'altra nella quale si asserirà con fermezza: «Sì, è opera mia e non me ne pento.» E così è stato in questo caso. Il racconto ha deragliato improvvisamente dalle rotaie destinate alla raccolta sulla vita lavorativa (dello scrittore) e si è immesso di propria volontà su un binario differente.
Esclusa la crisi di panico, utile per chiudere la trama circolare, tutti gli altri avvenimenti narrati sono realmente accaduti, non necessariamente all'autore e non obbligatoriamente nell'ordine cronologico riportato nel testo.
La sequenza temporale è però voluta, per riprodurre una sorta di innere Wanderung dello scrittore ideale, cioè una trasmigrazione interiore o, utilizzando un termine a volte abusato, una catarsi.
Sul primo gradino della scala evolutiva troviamo il ladro di ricordi. È la forma di vita meno apprezzabile tra quelle che popolano l'universo degli scrittori. Si impadronisce senza richieste e senza scuse delle vite passate del prossimo, plasmandole e ritagliandole secondo le proprie esigenze narrative.
La gentile signora, mia amica di vecchia data e protagonista dell'episodio alla Tour Eiffel, spero non se la prenderà a male per le libertà che mi sono concesso nel raccontare l'accaduto. Dopo tutto, la sua identità rimarrà comunque un nostro segreto.
Di seguito, madre natura ha partorito gli osservatori senza coraggio. Li si ama o li si odia, non ci sono mezze misure. Sono i cantori dei bassifondi, i narratori delle guerre dimenticate, i cronisti del mondo reale, capaci di sbatterci in faccia la sua crudeltà, ma non di agire per mitigarla. O forse sono eroi sotto mentite spoglie, perché sopportano e scrivono?
Il dubbio mi è sorto nel 1995, leggendo un libro sui massacri in Ruanda corredato da un crudo servizio fotografico relativo alle vicende occorse in quel paese l'anno precedente. In un'immagine l'autore era stato immortalato, con taccuino al seguito, mentre sostava accanto al corpo senza vita di un uomo recuperato dal fiume Kagera prima di essere trascinato fino al Lago Vittoria. Il cadavere aveva gli occhi aperti e lo scrittore non si era preoccupato di compiere un atto di misericordia chiudendoglieli, ma prendeva appunti per trasmettere l'orrore che vedeva e che non poteva fermare, per spingere ad agire chi possedeva quel potere.
Al terzo livello evolutivo, compaiono i folli cercatori d'ordine nel caos del creato. Hanno un'ottima cultura, si distinguono per un pensiero diretto ed efficace, e sanno andare a fondo nelle analisi sociali e psicologiche espresse nelle proprie opere, ma si imbattono inevitabilmente nell'incongruità dell'esistenza, nella presenza del Male in un mondo creato da Dio. Alcuni fingono di non vedere, altri semplicemente cedono.
Il cercatore d'ordine su cui è basato il personaggio del racconto, lo incontrai nell'86 o nell'87, la memoria mi tradisce, in un ospizio per anziani, durante un turno di volontariato con i ragazzi della mia parrocchia. Era esageratamente pazzo, per senilità, tuttavia affascinava e sosteneva con tanta fermezza la sua pretesa di essere stato uno scrittore famoso da avermi quasi convinto, se non lo avesse tradito la sua parlata sgrammaticata. Aveva passato l'ottantina già allora e, a meno che non abbia superato il secolo di vita, oggi sarà morto. Il mio unico rimpianto è di non aver mai saputo il suo nome. Certe personalità forti non meritano di restare anonime.
In apparenza, sembrerebbe affiorare dal racconto l'inutilità della scrittura. Sarebbe così se non ci fosse un quarto stadio dell'evoluzione, rimasto leggermente nascosto ed evidenziato solo in conclusione. Si tratta dello scrittore che ha scoperto l'equilibrio, in senso letterario, e non si chiede le ragioni portanti di ciò che scrive. Costruisce i personaggi, le ambientazioni e li lascia vivere, in modo che siano i lettori a trarne le conclusioni, per mezzo di un fenomeno deduttivo e non induttivo. In quanto ideale, quest'ultimo personaggio non esiste. Può darsi che mi sbagli. Magari corrisponde a ciascuno degli scrittori divenuti famosi...
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