Dal diario di Sophie Lecroix
Odio il sorriso di mio figlio. Mi vergogno, una madre non dovrebbe parlare così. Pierre sopporta in silenzio la mia follia senza farmelo pesare. Lo fa perché mi vuole bene. Non ha fatto parola con nessuno delle mie giornate di buio, lui mi abbraccia e se ne torna nella sua stanza. Oggi l'ho colpito con una padella di ghisa. Volevo togliermi la vita, ma non l'ho fatto. Pierre ha bisogno della sua mamma, nonostante tutto. Non sono una cattiva madre, è solo che odio il sorriso di mio figlio.
Finirà, Pierre, te lo prometto. Un giorno aprirò quel cassetto e tornerai a vivere.
- Dobbiamo cambiare la medicazione, tesoro.
Sophie si avvicinò a suo figlio con i suoi veri occhi, non quelli che Pierre detestava con tutto il cuore. Teneva in mano una confezione di garza emostatica e una bottiglia di disinfettante verde. Pierre si alzò dal divano e guardò Sophie. Erano due giorni che non diceva una parola. L'ultimo giorno di buio era stato di quelli forti. Il dolore alla testa era ancora vivo, pulsante come un cuore imbevuto di adrenalina. Fortunatamente la superficie liscia della padella di ghisa non aveva lasciato sul viso di Pierre nient'altro che un grosso livido viola e un'escoriazione superficiale.
- Come ti senti, Pierre?
- Sto bene mamma.
Sophie sentì la diga che arrestava il fiume di lacrime infrangersi sotto i colpi della voce di suo figlio. Tre parole; finalmente il suo Pierre aveva scelto di rompere il silenzio.
- Lo sai che la mamma ti vuole bene, vero tesoro? - disse Sophie singhiozzando.
- Lo so, mamma.
Sophie raggiunse la sua camera da letto. Si gettò sul letto a pancia in giù e cominciò a piangere.
Pierre andò in camera sua. Ogni volta che entrava nella sua stanza faceva fatica ad abituarsi all'atmosfera tetra di quell'ambiente. Le pareti erano tappezzate da poster raffiguranti creature mostruose. Vampiri, scheletri e gargoyle lo circondavano e gli davano la sensazione che da un momento all'altro potessero liberarsi dalla carta plastificata e aggredirlo alle spalle.
Sophie aveva trasformato la camera di suo figlio nel set di un film dell'orrore. Pierre doveva avere paura, quella era la regola. Pierre doveva smetterla di ridere.
Era stato a causa di quel film di Mel Brooks, Frankenstein Junior. Sophie era ancora al ristorante, non sarebbe tornata prima delle quattro. Pierre si era divertito da matti davanti a quella pellicola. Non riusciva a smetterla, le lacrime gli avevano inumidito zigomi e labbra.
Poi era rientrata Sophie.
Pierre, forse a causa del volume della TV, non aveva percepito il rumore della chiave che si faceva largo negli ingranaggi della serratura.
Sophie era entrata in casa.
Lo aveva sentito.
Aveva percorso con passo rapido il piccolo corridoio che tagliava l'appartamento come un coltello affilato e aveva svoltato a sinistra in direzione della sala da pranzo.
Pierre la guardava, con il viso rosso, le labbra contratte in una smorfia indefinibile. Sembrava stesse per esplodere. Sentiva il solletico della risata grattargli sul palato, pettinargli le pareti dello stomaco e contrarre ogni singolo muscolo del suo corpo.
Non era riuscito a trattenere oltre quella scarica di gioia. Poi i loro occhi si erano incontrati e quelli di Sophie avevano cambiato forma. Pierre li aveva visti assottigliarsi fino a diventare due fessure nere piene di collera.
Aveva gettato la borsa sul pavimento ed era corsa in cucina.
Pierre aveva sentito il rumore delle pentole che sbattevano l'una contro l'altra. Sapeva che era giunta l'ora della sua punizione. Ma qual era la sua colpa? Non lo sapeva, non riusciva a capirlo. Sembrava che sua madre odiasse la sua gioia, il suo divertimento. Quando l'aveva vista apparire sulla soglia della sala da pranzo con quella padella nera aveva capito che quello era uno dei suoi giorni di buio e che non avrebbe potuto fare niente per impedire la mattanza imminente.
- Quante volte ti ho detto di non farlo! Pierre, smettila!
Sophie si era avvicinata verso di lui e lo aveva colpito con forza.
Avrebbe potuto ucciderlo.
Pierre si era accasciato sul divano in posizione fetale e in un istante le risate di qualche minuto prima si erano trasformate in un pianto a dirotto.
- Ti prego, Pierre! Non posso guardare il tuo viso! Non costringermi a farlo ancora...
La sua voce si era fatta sottile come ovatta. I singhiozzi di Pierre avevano cancellato dal volto di Sophie tutta la collera che aveva in corpo.
- Scusa mamma... - aveva detto Pierre con parole umide di lacrime.
- Non è niente, tesoro... la mamma è qui con te...
Si erano abbracciati e tutto era finito così.
Sophie rovistò all'interno della sua borsa fino a che non trovò la chiave argentata.
Era lunga e usurata. La prese in mano e si diresse verso la piccola credenza di legno scuro accanto all'armadio a muro.
Il cassetto nero, pensò, avrebbe salvato suo figlio.
Infilò la chiave nella piccola serratura e l'aprì. Era profondo una decina di centimetri ed era quasi vuoto. Tutto ciò che vide fu la scatola d'acciaio che da otto anni riposava in quel posto. Prese l'astuccio, simile a una custodia per gli occhiali, e l'aprì.
Il coltello sembrava fissarla. Dodici centimetri di lama, brillanti come le gocce d'acqua che il gelo trasforma in piccole stalattiti di ghiaccio e che rimangono appese ai rami degli alberi.
Lo puliva ogni giorno.
Il manico era di un blu meraviglioso. Come il cielo di Parigi.
Sophie vedeva il mare nel manico di quel coltello. Lo impugnò con la mano destra e se lo passò sulle labbra. Con la punta della lingua assaggiò la superficie della lama fino ad incontrarne la leggera seghettatura finale. Assaporò il sapore delle gocce di sangue mescolate a saliva che gli erano rimaste intrappolate in bocca.
Avvicinò la lama sul petto e la fece scorrere tra i seni e più giù fino al basso ventre.
Chiuse gli occhi.
Sentì il rumore dei bottoni della camicetta che saltavano in aria ma non era un suono reale. Quel rumore proveniva dalla sua testa, dai suoi ricordi.
Ti piace vero?
Sophie... lo so che ti piace.
Tornò ad aprire gli occhi e ripose il coltello nella sua custodia.
Paul Dublin accostò la Mercedes color canna di fucile nel piazzale della sua villa di Lake View. Prima di scendere dalla macchina si sistemò il nodo della cravatta e si aggiustò i capelli. Controllò che sul collo non ci fossero tracce di rossetto e prese la sua borsa di pelle marrone.
Qualche foglio scivolò via dalla borsa che aveva lasciato socchiusa. I soldi erano arrivati, sua moglie sembrava felice e suo figlio lo adorava. Tutto andava per il verso giusto. Vanessa era stata un discreto passatempo ma il divertimento poteva considerarsi esaurito.
Entrò in casa e gettò la giacca sul divano del soggiorno. Maggie era dall'estetista e James ancora a scuola. Compose il numero di Vanessa e la liquidò nel giro di un paio di minuti.
Lo specchio che aveva di fronte ritraeva un uomo di successo. Erano lontani i giorni in cui spediva plichi di manoscritti in cerca di una casa editrice che accettasse il suo lavoro. Aveva scritto un best seller che gli aveva regalato fama e notorietà. Ora doveva dimostrare di essere un grande scrittore. Raccolse i fogli che teneva nella borsa e cominciò a scorrere con gli occhi le righe nere che raccontavano le oscure vicende di un agente di polizia corrotto di nome Walter Gray. Sentiva il peso della responsabilità, doveva inventare una storia che fosse credibile. "Venere dagli occhi blu" lo aveva incoronato come una delle migliori promesse del panorama narrativo contemporaneo, ma le voci nascoste tra le pagine cominciavano a reclamare i propri diritti d'autore. Quel libro era solo un enorme equivoco trasformato in una macchina mangiasoldi.
"Paul Dublin sembra conoscere ogni singola angolazione della sofferenza femminile..." "Dublin descrive la sofferenza umana come un esperto psicologo..." "Paul Dublin, il nuovo re del thriller..." "Venere dagli occhi blu, teso, duro, crudele. Tutto ciò che una donna non dovrebbe mai leggere".
Paul riempì il bicchiere di Martini Dry e sprofondò sul divano di pelle del suo studio.
Sophie non aveva dimenticato.
Non poteva dimenticare.
Aprì gli occhi dopo una notte trascorsa in stato di semi-incoscienza. La bottiglie di Scotch, praticamente vuota, troneggiava sul comodino a sinistra del suo letto da una piazza e mezzo accanto al pacchetto di Rothmans.
Uscì di casa dopo una doccia veloce e scelse di non andare da nessuna parte.
La piccola libreria di Cristiane poteva essere un rifugio tranquillo.
- Ciao Sophie, che ci fai da queste parti? - esordì Cristiane sorridendo.
- Lasciami stare Cristiane, oggi non è giornata.
- Ci siamo alzate di buon umore, eh?
Sophie, come se non avesse ascoltato la voce dell'amica, occhieggiò il reparto best seller e scelse un voluminoso Sperling dalla copertina color blu marino. Pensò al colore del manico del suo coltello nascosto nel cassetto d'ebano.
"Venere dagli occhi blu". Un titolo suggestivo, pensò. La copertina plastificata raffigurava il viso sfumato di una donna che alzava la mano destra come per chiedere aiuto. Sophie fu quasi sul punto di gettare il libro contro lo scaffale dei best seller, ma si trattenne dal farlo. Pensò a Pierre, il suo bambino infelice.
Ti piace tesoro? Non muoverti...
Sei bellissima, piccola Sophie...
- Questo vende che è una meraviglia! - fece Cristiane che sembrava essere comparsa dal nulla.
Sophie la guardò con occhi carichi di orrore ma la ringraziò silenziosamente per aver interrotto sul nascere il film della sua tragedia interiore.
- Non conosco l'autore - rispose lei.
- Si chiama Paul Dublin, è inglese. E' il suo primo romanzo. Siamo già alla quarta ristampa. La prossima settimana sarà qui a Parigi per tenere una conferenza alla Sorbona. Incontrerà i professori della Facoltà di Lettere.
Sophie provò un'attrazione sconosciuta per quell'oggetto. Nonostante leggesse decine di libri, quello nascondeva un fascino del tutto particolare, quasi masochistico. Tornò a guardare la copertina e la donna senza volto che chiedeva aiuto. Cristiane le strappò il libro dalle mani e lo capovolse per sottoporre all'amica la foto che era sulla quarta di copertina.
- E' anche piuttosto affascinante, non credi? - fece lei.
Sophie incontrò gli occhi della foto in bianco e nero dell'autore.
La tempie cominciarono a pulsarle e il battito cardiaco accelerò vertiginosamente. Un lungo brivido le percorse la colonna vertebrale e andò a morire sui glutei già contratti e chiusi come un cancello sprangato.
- Ehi, che ti succede? - si preoccupò Cristiane
- Niente... Quanto costa?
- Diciotto euro. Vuoi comprarlo?
Sophie rovistò nella borsa e le pose un biglietto da venti. Non attese neppure che l'amica le desse il resto e lo scontrino.
Quando Sophie iniziò a sfogliare il romanzo di Paul Dublin comprese la veridicità di certe teorie sugli scherzi del destino. Pensò che Pierre avrebbe avuto la sua seconda possibilità. A metà romanzo si rese conto di essere creditrice della ricchezza accumulata dall'autore. Al termine della lettura pianificò la sua vendetta, nei minimi particolari.
Paul Dublin. Proprio lui, dopo otto anni. Studente di lettere alla Sorbona, progetto Erasmus, inverno 1999. Ricordò i suoi occhi verdi, le sue spalle, il suo fisico atletico e il suo sorriso meraviglioso. Lo stesso sorriso che le offriva la foto in bianco e nero sulla quarta di copertina. Lo stesso sorriso di Pierre. Non la smetteva mai di ridere. Avevano parlato un'ora appoggiati al bancone di legno dell'Irish Pub di Rue Saint Clair.
Studi anche tu lettere alla Sorbona?
Sono quasi laureata. Tu, invece?
Conto di terminare il ciclo Erasmus e di tornarmene a casa.
Come ti chiami?
Non se l'erano detti? Certo che sì...
Non mi ha detto di chiamarsi Paul. Bastardo!
Erano usciti dal locale, si erano baciati dolcemente corpo a corpo contro il muro freddo, Paul, o come diavolo avesse detto di chiamarsi, l'aveva stretta a sé, sempre più forte, con sempre maggiore prepotenza. Sophie ricordava ogni odore, ogni singola sensazione di quella notte infernale. Ricordò di aver guardato il lampione rotto che li osservava dall'alto, di aver visto gli schizzi di sangue che avevano imbrattato la parete giallognola alle sue spalle. Assaporò ad occhi chiusi il sapore del sangue che aveva versato otto anni prima mentre le mani di Paul perlustravano un corpo sempre più debole e indifeso. Ricordò le sue parole imbevute di Whisky.
Ti piace piccola Sophie? Lo so che ti piace. Non muoverti... Non costringermi a farti ancora più male.
Rivide quel sorriso. Il sorriso più bello che avesse mai visto si era trasformato in un ghigno demoniaco. Le due fossette ai lati della bocca, le piccole rughe intorno alla linea degli occhi... Pierre gli assomigliava in modo incredibile. Continuava a ridere mentre la possedeva e la gettava tra i rifiuti come una bambola di pezza sporca e maleodorante. Ricordò il coltello, illuminato dalla luce della luna. Riascoltò il rumore dei bottoni della camicetta che cadevano a terra. Chiuse gli occhi e si toccò l'addome. Otto anni prima il suo corpo portava la firma di un uomo che aveva scritto il suo nome con la punta di quello stesso coltello. Una firma fatta di sangue e di lacrime.
Non si era neppure resa conto di averglielo sottratto.
Sophie riaprì gli occhi e corse in bagno. Sollevò la maglietta davanti allo specchio. Quello che vide furono solo quattro linee rosa sparpagliate lungo la superficie del torace e del ventre.
Una notte, solo una notte.
Tre ore di vita trasformate in una condanna eterna, per sé e per suo figlio. Tre ore di vita raccontate nelle pagine di quel libro che milioni di persone avevano letto e riletto. Una ragazza uccisa nel profondo dell'anima, tra i rifiuti della città degli innamorati, che veniva violentata altre cento, mille, diecimila volte attraverso gli occhi di estranei che avevano speso 18 euro nell'acquisto di quel romanzo. Sophie era diventata la protagonista di quel libro. Una donna di carta scelta dal destino come Dea vendicatrice.
La conferenza era stata un successo. Al termine del dibattito un enorme capannello di persone avevano accerchiato l'autore con l'unico obiettivo di ottenere una dedica di Paul Dublin. Sophie, dal fondo dell'Aula Magna, osservava la scena attraverso lo schermo delle sue lenti a contatto blu. La parrucca bionda le dava un'aria da pin up anni cinquanta. Aveva indossato una gonna nera e una camicia dello stesso colore che lasciava intravedere i lineamenti di un décolleté importante pur senza essere invadente. Si alzò dalla sedia e si diresse con aria sicura verso la cattedra bianca. Il capannello andava frantumandosi a colpi di autografi e Sophie non impiegò molto a raggiungere Paul Dublin. L'autore era ancora intento a firmare dediche e non si accorse della ragazza bionda che sostava di fronte a lui. Sophie appoggiò la sua copia di "Venere dagli occhi blu" davanti a Dublin.
- Il nome? - domandò lui senza alzare lo sguardo.
- Claire - fu la risposta.
Paul alzò il capo incontrando gli occhi di Sophie per la prima volta dopo otto anni. Si guardarono qualche istante prima che lui tornasse a firmare il libro. Paul la guardava con occhi inequivocabili, quelli di un cacciatore che ha già scelto la sua preda. Non poteva riconoscerla.
Un'ora più tardi stavano bevendo un bicchiere di vino bianco.
Due ore più tardi stavano cenando da Jerome.
Tre ore più tardi Paul le versava Champagne in una coppa di cristallo nella sua stanza allo Sheraton Hotel di Parigi.
Sophie si svegliò. Si girò dall'altra parte osservando il corpo glabro e muscoloso di Paul che dormiva profondamente. Scese dal letto e si diresse verso il divano di pelle dove aveva appoggiato la borsa. Prese l'astuccio e tirò fuori il coltello dal manico blu. La sagoma della donna tagliava con eleganza la penombra della stanza. I contorni del profilo delle sue curve ondeggiavano silenziosamente sulla moquette.
Sophie sedette sul bordo del letto, dal lato di Paul.
- Ehi, Paul... svegliati.
Il corpo di Paul cominciò a rispondere ai sussurri di Sophie, finché aprì gli occhi e si trovò davanti una donna diversa. Mora, malvagia e dallo sguardo colmo d'odio. Con un coltello nella mano destra.
- Lo riconosci questo, Paul?
- Sophie...
Sophie gli disegnò una linea rossa all'altezza del pomo d'Adamo. Il sangue zampillava sulle coperte di seta e fin sopra le pareti. Il corpo nudo e senza vita attendeva immobile che si compisse il cieco volere della donna. Sophie, con la cura e l'attenzione di un chirurgo, praticò due brevi incisioni ai lati della bocca di Paul cancellandogli per sempre dal volto la speranza di poter sorridere di nuovo.
Lo guardò ancora un momento. Davanti a lei c'era un uomo che fino a poche ore prima era stato l'amante di una sera e che otto anni prima era stato il Diavolo dalle mani sudate e dal sorriso più bello che avesse mai visto.
Quando Sophie tornò a casa si sentiva meglio.
Pierre dormiva profondamente. Si spogliò e si gettò a letto in preda alle emozioni più disparate. Quando aprì gli occhi credette di sognare.
Pierre la guardava con occhi spenti. Impugnava un coltello dal manico blu illuminato dalla luce discreta della luna.
- Tesoro... che stai facendo?
Pierre la guardò dritta negli occhi e scoppiò a ridere. Le fossette lasciategli in eredità da Paul sembravano lunghi solchi scolpiti nella pietra. Sophie non provò alcun sentimento d'odio nei confronti di suo figlio. Pierre stava ancora ridendo quando Sophie chiuse gli occhi per sempre.
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